Il mugnaio rosso che sfidò la ‘ndrina

Marzo ’77, Italia, anni di piombo. Si spara, a Bologna come in Calabria. L’11 muore Francesco Lorusso. È un militante di Lotta continua, viene colpito dal fuoco della polizia durante una manifestazione, lì nella città simbolo del Settantasette. Il giorno successivo, il 12 marzo, cade Rocco Gatto a Gioiosa Ionica, in provincia di Reggio Calabria. È un mugnaio iscritto al Pci, un uomo onesto, che non ne vuole sapere di pagare la mazzetta e denuncia quel che vede e sa. Lo uccidono a colpi di lupara, lì nel paese da dove è partita la prima sfida alla ‘ndrangheta. Sangue su sangue. La repressione dello Stato e quella delle cosche.

Marzo ’77, esattamente trent’anni fa. Sei lustri di fallimenti. A partire dal sogno industriale del pacchetto Colombo, varato dopo la Rivolta nera del ’70 per Reggio capoluogo. Nella Piana di Gioia Tauro, terra d’aranci, doveva venir su il quinto centro siderurgico. A Saline Ioniche, terra di bergamotti, si lavora per costruire gli stabilimenti della Liquichimica. Due impianti fantasma, miliardi che finiscono nelle casse delle cosche. È anche il tempo della trasformazione delle ‘ndrine: da mafia pastorale in multinazionale della droga, passando per i sequestri di persona. Senza dimenticare il monopolio degli appalti pubblici e la scalata, diretta e indiretta, ai vertici della politica locale. Un’era di dominio incontrastato che ha fatto della ‘ndrangheta la prima potenza criminale in Europa.

Storia di un uomo onesto
Rocco Gatto ha sempre lavorato per dare un futuro alla famiglia. Nato nel ’26, è il primo di 15 figli. Da bambino aiuta il padre Pasquale come garzone in un mulino di Gioiosa Ionica, nel cuore della Locride. Farà la gavetta, ne diventerà proprietario nel ’64. E da allora cominciano i guai, arrivano le prime richieste dalla cosca padrona, gli Ursini.

Rocco è già un uomo tutto d’un pezzo. Ha preso il carattere fiero del padre, che in tempi di fascismo non aveva voluto indossare la camicia nera. Una famiglia di stalinisti, di quelli che credono nel mito sovietico. Di quelli che non accettano imposizioni, né dal padrone né dal capobastone. Soldi al boss, Rocco non ne ha mai voluti dare. Lui che per i fratelli si sarebbe tolto il pane di bocca, raccontano i familiari. Generoso, ma fiero. Hanno provato a piegarlo in tutti i modi: i furti, gli incendi al mulino, le minacce. Gli hanno anche rubato gli orologi da collezione, che riparava per passione.

Dal ’74 la morsa del clan si fa stringente. Più volte Luigi Ursini e Mario Simonetta – il capoclan e il gregario, imputati per la vicenda del mugnaio e condannati in via definitiva nell’88 per estorsione aggravata – si fanno vedere al mulino, chiedono, pretendono. Magari anche delle cambiali, una firma per debiti di mafia.

Rocco Gatto non è solo a lottare contro la ‘ndrangheta. Prima di lui c’erano state le battaglie delle gelsominaie sullo Ionio reggino, quelle dei braccianti sulla Piana. E a Gioiosa s’incrociano storie uniche, biografie poco conosciute di uomini di valore. Gioiosa è il paese dello sciopero cittadino contro la mafia, nel ’75, il primo in Italia. È anche il primo Comune a costituirsi parte civile in un processo contro le cosche. Protagonista di questi primati dell’antimafia è Francesco Modafferi, in quegli anni battagliero sindaco del Pci.

Il raid al mercato e l’agguato
A Gioiosa c’è anche don Natale Bianchi, un prete del dissenso, in rotta con il clero ufficiale dopo lo scontro con il prete in odore di mafia, don Giovanni Stilo (la vicenda è raccontata da Corrado Stajano nel libro Africo, del ’79). Don Bianchi guida una comunità di base, un gruppo che si batte per moralizzare la Chiesa, emancipare la donna, contrastare la ‘ndrangheta. Natale Bianchi, originario del Nord-Est, resterà a Gioiosa anche dopo la sospensione a divinis, il taglio dei fondi, la «morte civile» decretata dal vescovo Francesco Tortora. Dalla Locride passa anche un carabiniere di ferro, il capitano Gennaro Niglio. Che usa i vecchi metodi, spesso fa a pistolettate coi latitanti, ma la ‘ndrangheta la combatte davvero.

Vincenzo Ursini, il reggente del clan, resta ucciso il 6 novembre in un conflitto a fuoco con i carabinieri. La cosca, che pensa a un’esecuzione ordinata dal capitano Niglio, scatena una reazione furibonda, anche per dare un segnale alle altre famiglie mafiose. Viene imposto il coprifuoco. Il 7 novembre, una domenica, è giorno di mercato e a Gioiosa arrivano ambulanti e visitatori da tutta la provincia. Gli ‘ndranghetisti fermano i commercianti alle porte del paese, armi in pugno, e li rispediscono a casa. Poi decretano la chiusura dei negozi. Lutto cittadino in onore del capocosca ucciso. Ci pensa il capitano Niglio a ristabilire l’ordine. Ma di parlare, di denunciare nessuno ha il coraggio. Tranne il mugnaio comunista.

Fa i nomi Rocco. Li fa al capitano Niglio e li conferma di fronte al giudice istruttore. Lo fa perché ha sopportato troppo. Ha capito che la sua battaglia contro gli Ursini non è una lotta personale: compie il suo dovere civile. Ma facendolo infrange una regola fondamentale della mafia. Rocco sa anche questo, ma quel verbale lo firma, perché pensa sia giusto così.

È il 12 marzo del ’77. Lo aspettano lungo la provinciale che porta a Roccella Ionica, sotto un ponticello. Rocco è alla guida del suo furgone, fa il giro per raccogliere i sacchi di grano da macinare. Si aspetta qualcosa, ha con sé il suo fucile da caccia, con il colpo in canna. Alle 6.30 scatta l’agguato. Due o tre colpi in successione. Di lupara. Rocco tiene la guida del mezzo, si ferma poco più avanti, ma non c’è più niente da fare.

Giustizia per Rocco
La gente non sta a guardare, reagisce, scende in piazza. Soprattutto i giovani gridano la loro rabbia, come sempre hanno fatto anche in Calabria, anche quando i riflettori erano spenti e si pagava in prima persona ogni cenno di resistenza alla mafia. Da subito Pasquale Gatto, il padre di Rocco, accusa gli Ursini. Alza la voce per mesi, tanto che qualcuno pensa di profanare la tomba di Rocco, per lanciare un messaggio. È il novembre del ’77. Pasquale non ha paura, continua a chiedere giustizia. Lo farà anche di fronte al presidente Sandro Pertini, sceso in Calabria nell’82 per portare alla famiglia Gatto la medaglia al valore civile per Rocco. Parole commoventi, tanto che il Capo di Stato rompe il cerimoniale e decide di abbracciare quel vecchio in lacrime.

Pasquale porterà avanti per tutta la vita la sua battaglia, anche dopo le condanne, che giudica troppo leggere. Andrà in televisione, rilascerà interviste e commenti per dire ai suoi rivali che non dimentica. Lo farà fino all’ultimo giorno, con l’Internazionale e i garofani rossi ad accompagnare il corteo del suo funerale.
L’omicidio di Rocco ha portato il clan Ursini alla sbarra, ha catalizzato l’attenzione nazionale, ha provocato arresti e condanne. Una morte che il Pci ha vissuto come un attacco diretto, scatenando campagne stampa, seguendo dall’interno i processi che ne sono seguiti. Rocco è vissuto nel ricordo della comunità comunista, fino a quando quel patrimonio di valori e ricordi non è andato disperso.

Insieme a lui altre vittime delle cosche nell’album del Pci. Come Ciccio Vinci, ucciso per errore il 10 dicembre ’76 a Cittanova. Ciccio, giovane dirigente della Fgci, è rimasto coinvolto in un episodio della cruenta faida tra i Facchineri e i Raso-Albanese. Più avanti, nel giugno ’80, l’attacco furioso: l’11 ammazzano Peppe Valarioti, segretario del Pci a Rosarno. Il 21 a Cetraro cade Giannino Losardo, assessore comunale.

Uomini, forse, non ricordati abbastanza. Esempi la cui memoria sbiadisce. Come quel murales in piazza Vittorio Veneto a Gioiosa, opera degli artisti della Cgil milanese. Un Quarto stato dell’antimafia calabrese, sta lì dal ’78 a ricordare Rocco e gli altri che hanno combattuto e sono morti. E che rischiano oggi di finire dimenticati.

(scritto con Alessio Magro, pubblicato su “Il manifesto”)

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