Per molto tempo ha vissuto nascondendosi, forse vergognandosi. Poi l’hanno ammazzata, per una questione d’onore. E per trent’anni è svanita. Persino dal ricordo delle persone. Non ha avuto una storia, una faccia, semplicemente il proprio nome. Tutto è andato perso dentro la memoria corta e colpevole della Calabria. Oggi, da morta, le arriva un piccolo e certamente insufficiente risarcimento. Da morta, si riappropria di sé: si chiama Annunziata Pesce, è stata uccisa nel 1981. A “riportarla in vita” un’altra donna, un’altra Pesce. È Giuseppina, la pentita della cosca. La giovane donna che ha svelato le trame perverse che regolano la vita del clan, la vita dei rosarnesi. E che ha raccontato questa storia lontana, dimenticata. Un contributo prezioso – insieme a quello degli altri ‘ndranghetisti che hanno iniziato a collaborare in questi mesi – per il lavoro importantissimo che stanno conducendo i magistrati di Reggio Calabria che, non a caso, sono diventati spesso oggetto di minacce e intimidazioni.
Annunziata era colpevole di avere amato un carabiniere. Un’onta che una cosca come quella dei Pesce proprio non poteva accettare. E pazienza se per conservare l’onore è necessario uccidere il sangue del proprio sangue.
Nel libro “Dimenticati. Vittime della ‘ndrangheta”, pubblicato lo scorso ottobre, abbiamo raccontato la storia di oltre 250 morti ammazzati dalla ‘ndrangheta negli ultimi decenni. Minuziosamente abbiamo provato a recuperare piccole e grandi storie di donne e uomini uccisi e che lo Stato, la Calabria, il proprio piccolo paese, i vicini di casa hanno dimenticato. Un lavoro doloroso, che consideravamo e consideriamo necessario per provare a ricostruire – pezzo dopo pezzo – un’identità nuova per la Calabria che non può prescindere dalla memoria e dal senso di sé. Un intero, e lunghissimo capitolo, di questo libro è dedicato all’onore (e al disonore). Perché consideriamo necessario riscrivere il senso di questa parola che cambia colore e significato a seconda della persona che la pronuncia. L’onore è tutto per lo ‘ndranghetista, e il metro con cui si giudica un uomo d’onore poco ha a che fare con le regole civili. E troppo spesso onore fa rima con dominio sessuale. E se le donne hanno trovato, combattendo, la loro liberazione, il partito dell’onore è ancora vivo e vegeto, trasversale, potente, radicato al nord e al sud. In questo contesto si inserisce la ‘ndrangheta, custode arcaica e moderna di questo malinteso senso dell’onore.
Annunziata Pesce ha tradito l’onore due volte. Ha avuto una relazione extraconiugale. E, quel che è peggio, l’ha avuta – lei figlia di una famiglia di rispetto – con un carabiniere, uno sbirro. Nel libro “Dimenticati” c’è anche la storia di Annunziata, la più dimenticata tra i dimenticati. È quasi un fantasma nelle righe che le abbiamo dedicato, perché di un fantasma si tratta nel senso comune della Calabria e dell’anti-‘ndrangheta. Così abbiamo raccontato la sua storia senza sapere quale fosse il suo nome di battesimo. Ci abbiamo provato a scoprirlo, abbiamo chiesto e non abbiamo avuto risposte. Nessuno ne aveva memoria. Abbiamo deciso di scrivere lo stesso della sua storia, della sua decisione di violare l’educazione sentimentale della famiglia. Proprio mentre chiudevamo il libro, siamo riusciti a scovare le dichiarazioni dello storico e controverso pentito Pino Scriva, boss della Piana di Gioia Tauro. Ha raccontato che prima di farla fuori l’hanno seguita per avere la certezza del “tradimento”, scoprendo che incontrava l’amante in una pensione sulla costa tirrenica. Nelle sue dichiarazioni del 13 dicembre 1983 Scriva sostiene che la figlia di Salvatore Pesce, fratello del boss Peppe, e proprietario di una ruspa utilizzata per il movimento terra, è stata «sequestrata a Bagnara per motivi d’onore. La ragazza, sposata, aveva una relazione con un carabiniere di Rosarno e ciò per l’ambiente è fatto di particolare gravità». La ragazza «fu portata dai suoi fratelli latitanti e ivi uccisa e seppellita». Lo stesso Scriva ammette che i fatti gli sono stati raccontati, che la donna può anche essere stata mandata all’estero «evitando a Rosarno lo scandalo che si era creato». Una traccia. Adesso, in questa nuova e importante stagione di pentimenti, grazie alle dichiarazioni di Giuseppina Pesce e al lavoro della procura antimafia di Reggio, conosciamo un altro tassello di verità in questa storia agghiacciante. La pentita ha raccontato di avere saputo, scrive Peppe Baldessarro su questo giornale di qualche giorno fa, «che “i sardignoli” (un braccio della famiglia) avevano una sorella sposata, Annunziata Pesce, la quale aveva avuto una relazione extraconiugale con un carabiniere». Di qui la decisione di ucciderla. Era l’aprile del 1981. A deciderlo sarebbe stato il vecchio boss Giuseppe Pesce, nonostante il tentativo dei “sardignoli” di risparmiarla. Secondo Giuseppina, «l’esecuzione della donna sarebbe stata eseguita da Antonino Pesce, 57 anni, e dallo stesso fratello della donna, Antonio Pesce di 47 anni». Perché per fare giustizia in questi casi è necessario che sia la stessa famiglia, che un familiare diretto sia presente.
È prezioso nel contrasto ai clan il contributo dei collaboratori di giustizia. Da questo punto di vista per Reggio s’è aperta una stagione che rischia di diventare storica dal punto di vista delle inchieste della magistratura e delle forze di polizia. Importantissime dimostrano di essere anche le dichiarazioni di Giuseppina Pesce che fanno chiarezza sulle cosche rosarnesi e riportano alla luce storie dimenticate. Che non sia l’occasione anche per avere nuovi e importanti elementi su un’altra storia dimenticata avvenuta a Rosarno qualche decennio fa: l’omicidio del segretario della sezione comunista del Pci Peppe Valarioti, ucciso a trent’anni l’11 giugno 1980.
(scritto con Alessio Magro)