Riflessioni attorno all’identità calabrese, all’individualismo anarcoide, ai legami tra le cosche dei pastori e la sinistra, alla nascita di un movimento contro i clan. La memoria impedita dell’antindrangheta genera un immaginario sterile e alimenta la rassegnazione. E dalla memoria, da una nuova identità e un ummaginario antindrangheta passa il futuro della Calabria
A scavare nella memoria dei calabresi ci si accorge che il filo della narrazione che facciamo della nostra terra – e della narrazione che gli altri fanno di noi, che subiamo con mente acritica – è il filo della rassegnazione. Il sentimento amaro di chi sa che nulla può cambiare, che la ‘ndrangheta è sempre esistita e sempre esisterà. L’eterna ingiustizia che essa incarna già viveva sotto le spoglie dei borbonici vessatori, dei piemontesi invasori o della Repubblica del triangolo industriale. Fame e miseria, l’ansia della disoccupazione o lo strappo feroce dell’emigrazione, il diritto che diventa favore e la legge che tutela i soli potenti, la mafia che si fa stato e lo stato che si fa mafia. Nulla può cambiare nell’immaginario colonizzato del calabrese.
La rassegnazione, un elemento talmente interiorizzato che lo si scorge anche in chi ha resistito, ha detto no, in difesa di un ideale di giustizia. Non è forse tipica calabrese la figura del vendicatore solitario? Quando ci si trova di fronte a un torto subito, la reazione è distruttiva: niente può cambiare, ma non è possibile sostenere il peso dell’offesa patita, tutto è perduto e allora tanto vale azzerare il futuro. Una lotta titanica, ammantata di gloria ma votata al fallimento. L’agire di un eroe tragico. E la retorica dell’eroe antimafia, un esempio struggente ma sterile se non seminato in un campo fecondo, è quella preferita dal circo mediatico che si adopera per disinnescare la voglia di cambiamento tra la gente. Si narra del calabrese come brigante “buono” che oppone il petto alle cosche o come pecora ammansita che non concepisce nemmeno la rivolta contro il suo pastore. Non ci sono vie di fuga dallo schema che ci hanno cucito addosso, e che gli intellettuali calabresi (?) poco hanno fatto per decostruire. La rassegnazione è dentro di noi.
Lo stereotipo del brigante romantico poggia su un fondo di verità: ogni calabrese straziato dal senso di impotenza sente il richiamo ancestrale della cultura della vendetta, della rivolta anarcoide, sogna un giustiziere senza macchia e senza paura e, con acrobazie improbabili, a volte lo individua in chi si schiera contro le istituzioni, quale che sia il motivo che lo anima. Retaggi culturali con i quali ognuno di noi deve fare i conti. Per lungo tempo un simile abbaglio ha permesso una convivenza anomala tra il movimento operaio e contadino e la vecchia ‘ndrangheta pastorale. Checché ne dicano i domatori della Storia, è questa una vicenda ancora tutta da scrivere. Antichi legami, stretti sulle isole del confino di polizia, saldano militanti del Pci e della Cgil ai picciotti delle ‘ndrine, soprattutto in provincia di Reggio Calabria. Hanno un obiettivo condiviso, la rappresentanza del popolo, e un nemico comune, lo Stato repressivo. Un’alleanza segreta difficile da raccontare, e nessuno lo ha fatto, ma è proprio dalla rottura di tale connubio che nasce il primo grande movimento antindrangheta. La resistenza della Calabria ribelle affonda le sue radici tra la fine degli anni 60 e negli anni 70, e vede in prima fila proprio gli eredi delle grandi lotte bracciantili dell’immediato Dopoguerra. Le cosche scelgono la via della droga, dei sequestri, dei grandi appalti, della massoneria, flirtano con l’eversione fascista ma sposano i partiti governativi, che aprono loro le porte dopo averli usati per lungo tempo come pastori di voti. Sono i comunisti del Pci, spesso in splendida solitudine e con tutte le contraddizioni del loro passato recente di fiancheggiatori, a resistere alla ‘ndranghetizzazione della società calabrese. È questa una Storia con la maiuscola, avvenimenti fondativi di un’identità alternativa alle cosche. Quel movimento ha perso, ma questo non spiega il perché quell’identità non sia diventata identità collettiva. Ancora una volta si torna alla rassegnazione.
Il movimento anti-‘ndrangheta ha perso. Ma negli anni 70 accade qualcosa di diverso dal solito: la partita è davvero aperta e la posta in gioco è il futuro. La ‘ndrangheta ha tradito il popolo che, a voler prendere per buona la tradizione, avrebbe dovuto difendere. La ‘ndrangheta si schiera compatta o quasi coi padroni, diventa il padrone. Questa volta a combattere c’è un intero popolo organizzato, che nell’ottica ‘ndranghetista va educato colpendone gli elementi migliori o più rappresentativi. Non è la prima volta che l’onorata società punta il fucile sui comunisti: è già successo in Sicilia trent’anni prima. E i fatti di Portella della Ginestra hanno nutrito l’immaginario antimafia covato per decenni tra i siciliani, comunisti e non. Dai morti di Portella è nata un’identità alternativa che si è cristallizzata definitivamente con le bombe degli anni 90.
I nostri morti, invece, nemmeno li ricordiamo. Rassegnazione, sì, perché quando il lutto è confinato nel privato della famiglia o dell’organizzazione politica allora dalla morte non nasce niente. È una memoria impedita, ostacolata quando si prova a renderle merito, negata dalle narrazioni ufficiali imposte dall’alto dai professionisti dell’antimafia (una definizione che solo in questo caso acquista un senso), calabresi e non. Gli esempi si sprecano.
La memoria degli anarchici di Africo, coi fratelli Palamara marchiati a fuoco dalla cosca di Peppe Morabito “u Tiradrittu” e dal prete in odore di ‘ndrangheta don Giovanni Stilo, è una memoria impedita. È una rivolta clamorosa di giovani pronti a tutto in quella che è terra di ‘ndrangheta per eccellenza. Solo la penna di Corrado Stajano rompe il silenzio e racconta tutto, anche di Salvatore Barbagallo, ucciso il 31 dicembre del ’76 durante un assalto subito dai Palamara. Ma Stajano è un’eccezione, e pagherà per lungo tempo per il suo libro ardito, Africo, vera bibbia carbonara, introvabile ormai, preziosa testimonianza di un’altra Calabria, un altro Sud che è sempre esistito e sempre esisterà.
È una memoria impedita la nostra perché scomoda. Gli anarchici di Africo e quelli di Reggio – Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Annalise Borth e Luigi Lo Celso, i cinque ragazzi morti in uno strano incidente stradale sulla via di Roma il 26 settembre del ’70 – che avevano scoperto le trame fasciomafiose della strage di Gioia Tauro (l’attentato al treno Freccia del Sud del 22 luglio ’70, con 6 morti e decine di feriti) e del del golpe Borghese e che per questo motivo sono stati assassinati. Una memoria tanto scomoda che nessuno ha pagato, finalmente raccontata dopo decenni nel libro “Cinque anarchici del Sud” dello scrittore Fabio Cuzzola. Ricordare gli anarchici, e i comunisti come Mommo Tripodi che con loro e prima di loro hanno fronteggiato l’ascesa delle cosche dei campi a Polistena e sulla Piana di Gioia Tauro, è scomodo perché vuol dire esprimere un giudizio su chi ha agito, ma anche su chi non l’ha fatto. La memoria di quegli anni è sempre stata custodita dalla memoria partigiana della sinistra, la cronaca dei fatti non si è mai storicizzata continuando a subire l’influsso nefasto e miope del gioco politico, i martiri del partito avversario sono rimasti degli avversari. E così la memoria dei morti del grande movimento anti-‘ndrangheta, la meglio gioventù calabrese, è stata una memoria impedita. Solo le sezioni di partito hanno tenuto vivo il ricordo del giovane Ciccio Vinci, leader della Fgci, ucciso a Cittanova il 10 dicembre del ’76, del mugnaio comunista Rocco Gatto, ammazzato a Gioiosa Ionica il 12 marzo del ’77, ma soprattutto del segretario del Pci di Rosarno Giuseppe Valarioti (10 giugno ’80) e dell’assessore di Cetraro Giannino Losardo (21 giugno ’80). Prima di loro erano stati assassinati il dirigente catanzarese Luigi Silipo (1 aprile ’65), e Orlando Legname, il 31 luglio ’79 a Limbadi. E Quirino Ledda, dirigente regionale del Pci, sfuggirà per un pelo alla bomba piazzata davanti alla sua casa catanzarese, nel marzo dell’82. Troppi morti per un solo partito. Sono i caduti del terrorismo della ‘ndrangheta, il sangue dei resistenti versato per mettere le mani sulla politica calabrese. Una strategia, a ben vedere, perfettamente riuscita.
Certo è che c’è chi ha resistito. Non solo i morti vanno onorati, ma anche i partigiani dell’anti-‘ndrangheta, che hanno combattuto contro le cosche, prima nella trincea della lotta politica e sindacale, poi nell’isolamento come i soldati giapponesi dimenticati nelle isole del Pacifico. Non sono stati innalzati come avrebbero meritato al ruolo di padri fondatori di una nuova identità calabrese e meridionale, alternativa alla logica mafiosa, ma sono stati lasciati soli, ignorati. E invece le radici dei fermenti sociali che oggi viviamo affondano agli anni di Mommo Tripodi, che per primo ha subito le minacce dei nuovi padroni delle campagne, e per primo ha denunciato, nel corso dello storico processone alla ‘ndrangheta del ’78 a Reggio, mentre gli altri sindaci negavano l’esistenza delle cosche. E poi agli anni di Peppino Lavorato, ancora oggi anima della resistenza alle cosche di Rosarno, dopo una vita spesa al servizio della Politica e un decennio da sindaco intransigente e illuminato. Lavorato ha perseguito le cosche a 360 gradi, in maniera brillante, facendo costituire il Comune in sede di processo civile, per la prima volta nella storia della Repubblica, e portando nelle casse pubbliche un risarcimento record di 9 milioni di euro per il danno ambientale causato dalle famiglie di ‘ndrangheta. Una svolta quella del Tribunale di Palmi datata 2007. Ovviamente sottovalutata. Ma Lavorato ha dato scossoni all’egemonia mafiosa anche sul fronte culturale: è stato uno dei primissimi sindaci ad aprire le porte agli africani, che già nei primi anni 90 si beccavano sprangate e fucilate dal sapore razzista e mafioso. Non è un caso se sulla Piana di Gioia Tauro siano nate forme di resistenza sociale creative, lungimiranti, appassionate e soprattutto vincenti. Non è vero affatto che l’antindrangheta debba sempre essere sconfitta. E così è stato per uno dei primi movimenti ambientalisti del Paese, quello del fronte del no alla centrale a carbone di Gioia Tauro nato nella seconda meta degli anni 80. Anni in cui nasceva proprio a Cittanova una delle prime, se non la prima associazione antiracket d’Italia, l’Acipac. Sono il preludio di quella che è stata, in anni recenti, una vera e propria rivoluzione: la nascita sui terreni confiscati ai boss della cooperativa Valle del Marro di Libera, cresciuta sotto la guida del prete antimafia don Pino Demasi.
Radici profonde anche nella Locride, con gli anarchici e Rocco Gatto, l’azione del prete del popolo Natale Bianchi e del carabiniere di ferro Gennaro Niglio, ma soprattutto con l’operato del sindaco dei record antimafia, il compianto Ciccio Modafferi. Da primo cittadino di Gioiosa Ionica – il paese di Rocco Gatto, che alla sua morte gli ha dedicato un murales enorme, restaurato dopo trent’anni grazie all’azione della società civile – Modafferi è stato il primo in Italia a sancire uno sciopero cittadino contro la criminalità organizzata. Era il 1975! E, pochi anni dopo, sempre Modafferi per primo ha portato un Comune a costituirsi parte civile in un processo di mafia. Comunista anche Modafferi, troppo presto dimenticato dal suo stesso partito.
Un’epopea entusiasmante, letteralmente liquidata dopo il ’91, con lo scioglimento del Partito comunista. Nessuno ha voluto o saputo tenere viva la memoria dell’antindrangheta, ed è questa la colpa più grave della sinistra calabrese, che pure una stagione in trincea l’ha vissuta da protagonista. La morte della memoria partigiana è il trionfo pieno della rassegnazione.
Anche le istituzioni che hanno realmente fronteggiato la ‘ndrangheta sono colpevoli di dimenticanza. Poliziotti, carabinieri, magistrati, sindaci, funzionari, quanti caduti per mano della ‘ndrangheta. Quante vittime innocenti, e quanti carnefici impuniti. Forse dimenticare è in questo caso un riflesso condizionato, la via più facile per nascondere il fallimento di uno Stato che non sa dare giustizia. Ma forse c’è dell’altro, e viene il dubbio che la rassegnazione sia funzionale a un certo modo di gestire il potere statale, quello che ha scelto la ‘ndrangheta come alleata.
Quando nel 1983 Pino Scriva, il criminale rosarnese ribattezzato “re delle evasioni”, comincia a ricostruire la storia della ‘ndrangheta s’alza compatto il coro dei garantisti, un gracchiare putrido alimentato da voci insospettabili che gettano fango sul primo superpentito calabrese, in realtà singolare personaggio non esente da stonature, ma a suo modo coerente. Solo qualche magistrato crede a Scriva, ma non ha né i mezzi né il consenso per agire. Pochi mesi dopo in Sicilia si pente Tommaso Buscetta. Gli esiti sono noti e alquanto diversi. Anni dopo Salvo Boemi, apprezzato pm per anni in servizio nella trincea calabrese, dirà che “non è una bestemmia affermare che Scriva valeva Buscetta”. Non ci sono solo le decine di ergastoli e le centinaia di anni di carcere comminati grazie alle sue testimonianze, sono le ricostruzioni più vituperate e mai accreditate quelle che danno conto della bontà delle parole del pentito Scriva. Già nell’83 si parla di Santa, di verticalizzazione delle cosche, di collegamenti interregionali, nazionali e internazionali. I magistrati, a loro stesso dire, erano impreparati ad affrontare un quadro del genere. Ci sono voluti altri dieci anni per far maturare alcune consapevolezze: con il maxi-processo Olimpia Boemi e le altre toghe del pool antimafia ricostruiscono la storia dell’ascesa criminale della ‘ndrangheta, grazie alle rivelazioni dei pentiti Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca. La storia di Olimpia è la storia di una negazione: è il processo più grande di sempre, supera il maxi siciliano e il processo Spartacus in Campania per numero di indagati, di arrestati, per il numero di ergastoli inflitti, per l’ampiezza temporale che copre e per la gravità dei reati che contesta. Ma Olimpia è sconosciuto, se non agli addetti ai lavori. Soprattutto, Olimpia è un processo rivoluzionario perché teorizza l’esistenza della cupola della ‘ndrangheta, colpendo così senza alcuna pietà i vertici criminali. Eppure quella del processo Olimpia, diviso in mille rivoli, è la storia di un processo fallito. Sabotato, verrebbe quasi da dire. Quello che accade dalla fine degli anni 90 al 2010 ha dell’incredibile: non solo le tesi accusatorie di Olimpia vengono demolite pezzo per pezzo, ma la magistratura fa dei balzi all’indietro di decenni. La ‘ndrangheta torna ad essere quella setta misteriosa e impenetrabile, che non genera pentiti né potrebbe mai farlo, che non ha strutture di comando verticali, il tutto condito da banalità trite e ritrite su costumi ancestrali e visioni troglodite, il solo contributo che la stampa nazionale riesce a dare per lungo tempo, ignorando colpevolmente la storia delle cosche e soprattutto dell’antindrangheta. Impera la rassegnazione.
Gli anni in cui la ‘ndrangheta si afferma sulla scena europea come broker monopolista del traffico di cocaina sono anche gli anni in cui la sua rappresentazione s’allontana sempre più dalla realtà. In quanto fenomeno glocale, la ‘ndrangheta è allo stesso tempo il prodotto più estremo della modernizzazione occidentale, sovrapposto in modo solo apparentemente contraddittorio al localismo più tradizionale. Una scena della piazza di Bovalino, tratta dai racconti e dalle canzoni della band combat-reggae degli Invece, spiega quello che accade tra i giovani calabresi. A essere vestiti alla moda, ad ascoltare la musica che passano le radio nazionali, a guardare la televisione, a guidare le auto più in, a vivere in maniera rampante e ad aggredire il futuro, in altri termini ad uniformarsi al modello culturale dominante e quindi ad essere più simili agli altri giovani italiani, sono i ragazzi delle famiglie ‘ndranghetiste di San Luca, i rampolli delle cosche e i loro amici, tutt’altro che isolati dal tessuto sociale ed economico. Gli altri, quelli che non ci stanno, sono relegati ai margini, cercano vie di fuga in culture alternative non in linea con la contemporaneità, occupano un piccolo spazio nella piazza del paese.
La ‘ndrangheta, questa sconosciuta, torna alla ribalta con l’omicidio di Franco Fortugno, il 16 ottobre del 2005. Sembra quasi che sia nata quel giorno. E poi s’afferma sulla scena internazionale con la strage di Ferragosto, la mattanza di Duisburg del 2007. Ancora poco si sa delle ‘ndrine. Finché nel 2010 arriva l’inchiesta Crimine e si mette finalmente la parola fine a ogni ipocrisia sulla struttura, le relazioni, gli affari delle cosche. E la mente corre a trent’anni o vent’anni prima. E al tempo andato perduto che ha permesso alla ‘ndrangheta di diventare quella che è oggi: la più potente delle mafie.
L’antindrangheta, nel frattempo, ha saputo rinascere dalle sue ceneri, nonostante tutto. Donne come Stefania Grasso e Deborah Cartisano hanno trasformato il lutto privato in speranza collettiva, prendendo le redini dell’associazione Libera. E questa volta è proprio la memoria la bandiera del movimento. Altri fermenti sono nati, altri modi di condurre la lotta s’affermano, l’immaginario dei calabresi sembra avere imboccato la via della decolonizzazione. Certo i profeti della rassegnazione sono sempre in agguato e, c’è da scommetterci, proveranno ancora a negare la nostra memoria, a raccontare la favola della ‘ndrangheta invincibile, a cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma come non mai la partita è aperta: i riflettori, per la prima volta, sono accesi, la società civile sembra vigile, la magistratura è credibile, i calabresi cominciano a raccontarsi e a farsi ascoltare. Una nuova identità può finalmente nascere. Ma occorre tenere fermo un principio: l’antindrangheta non può essere ipocritamente unitaria, se è vero come è vero che la lotta è tra lo Stato che sta contro le cosche e lo Stato che con le cosche s’è federato. È il tempo di scegliere da che parte stare, e chiedere il conto a chi sta dall’altra parte.
(scritto con Alessio Magro, pubblicato su Stopndrangheta.it)