Oltre la retorica, l’eredità dimenticata di Falcone

Sono ore di retorica a buon mercato e ricordi confusi, di parole in libertà e menzogne opportunistiche. Istituzioni che organizzano commemorazioni di maniera. Santificazioni.

E invece, a 25 anni dalla strage di Capaci, Giovanni Falcone andrebbe ricordato con verità e con rigore. Per rendergli giustizia, e perché faremmo un favore a tutti noi.

Non dovremmo allora raccontare soltanto il Giovanni Falcone martire. Dovremmo concentrarci piuttosto sull’uomo e sul magistrato, sull’intellettuale. L’uomo normale e imperfetto, che ha commesso errori, ha avuto paura e ha sofferto. Il magistrato formidabile, che ha cambiato di segno la lotta alla mafia. L’intellettuale capace di leggere fin dentro le viscere del Paese del suo tempo e che parla – ancora inascoltato – all’Italia di oggi, mettendola di fronte a uno specchio che mostra responsabilità, vuoti, inadeguatezze.

Sono molte quindi le cose da ricordare della storia di Giovanni Falcone, e da calare nella nostra realtà. La capacità di leggere i fenomeni mafiosi nella loro complessità, a partire dalla scoperta dei legami tra il denaro della droga, l’imprenditoria e la politica o dall’individuazione di un ruolo di “menti raffinatissime” e “centri occulti di potere” all’interno della mafia. Le doti professionali, che lo porteranno a istruire (e vincere) il primo maxiprocesso o ad acquisire una dimensione internazionale. Il senso del lavoro di gruppo: Falcone ha grande personalità, eppure crede nel pool (fa impressione, se rapportato a certi personaggi di oggi così autocentrati, pronti a tutto pur di andare sui giornali). Il senso delle istituzioni (nonostante le istituzioni). L’essere uomo del popolo (indispensabile, per esempio, per trovare un terreno di comunicazione con il primo pentito, Tommaso Buscetta). Le proposte di riforma (la Procura nazionale antimafia e la Dia, il 41bis e la legge sulla confisca dei beni) che hanno cambiato la lotta ai clan.

L’idea, “banale” e attualissima, secondo cui è importante parlare di mafia, ma è “importante parlarne correttamente” (deflagrante, se rapportata al dibattito di questi anni in cui chiunque si avventura in analisi sui clan e il 416 bis senza avere mai letto neppure una sentenza). Il concetto di professionalità dei magistrati che, per Falcone, significa “innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora”. Chissà se fischiano le orecchie a certi magistrati di oggi.

Eppure non è solo su questo che vorrei si concentrasse l’attenzione. Altre cose della vicenda e del pensiero di Falcone io credo servano all’Italia di oggi. Ricordare, per esempio, il Falcone sconfitto. Che da magistrato che ambisce a un ruolo viene ripetutamente bocciato: giudice istruttore, Alto commissario antimafia, membro del Csm, procuratore antimafia. Sconfitto e rispettoso (silenzioso, al contrario di certi magistrati sempre pronti a lamentarsi di una nomina sfumata). E il Falcone isolato. Quello del “corvo” al tribunale di Palermo e dei veleni, quello che temeva di essere ucciso e quello circondato da cittadine e cittadini infastiditi dalle sirene delle scorte e che chiedevano (come fece una donna dalle colonne del Giornale di Sicilia) di trasferire i magistrati in periferia così da non correre il rischio di essere coinvolti in un attentato. Quello contestato e delegittimato per ogni iniziativa (dal sequestro degli assegni ai viaggi all’estero). Quello della paura. “L’importante – diceva – non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”.

E infine le due eredità più importanti, per le classi dirigenti diffuse, per la società civile, per la magistratura, per il movimento antimafia, per i cittadini. La prima l’ha raccontata Paolo Borsellino ricordando che Falcone, seppure per un breve periodo, era entusiasta perché “la gente fa il tifo per noi”. E non perché auspicava un meccanismo di delega nei confronti dei giudici, ma perché nella società palermitana, che fino a quel momento aveva osteggiato le inchieste, stavano finalmente avvenendo delle trasformazioni sociali importanti. La seconda invece – l’insegnamento più importante – l’ha scritta e detta lo stesso Falcone: “La mafia rassomiglia ai palermitani, ai siciliani, agli italiani. I mafiosi non sono dei marziani”. L’ideologia della mafia “non è altro che la sublimazione e distorsione di valori che in sé non sono censurabili ma propri di larghi strati del Mezzogiorno d’Italia”. La mafia “non è estranea al tessuto sociale che la esprime”, non è un cancro “proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.

C’è un problema di fascino e di consenso. Di possibilità di scegliere e di credibilità delle istituzioni. Di opportunità e poca conoscenza. È questo il portato di Giovanni Falcone, questa la sua grandezza. La convinzione, dolorosa e lucida, di vivere in una società che ha tra i suoi tratti anche la presenza della mafia. E quindi la consapevolezza di poter vincere la battaglia contro la mafia non per una sentenza di condanna o una legge approvata in Parlamento, ma soltanto quando la gente si schiera dalla parte del cambiamento. Perché l’antimafia o è un modo di osservare il mondo ed è larga e popolare o semplicemente non è.

Questo è il Falcone che mi piacerebbe fosse ricordato, che sarebbe bello avere alla base di una nuova identità di questo paese. Un uomo e un magistrato scomodo, che ci scruta dentro – Istituzioni, movimenti, politica e cittadini – e non fa sconti. Che chiede impegno, rigore, serietà. Forse non è un caso, invece, che questi suoi tratti vengano tenuti sullo sfondo a vantaggio di un’immaginetta che – commemorazione dopo commemorazione – perde sempre più colore e significato.

Se chiudono i Tribunali per i minorenni (Pagina99)

Troppo belli, talmente belli, che tanto vale cancellarli. Potrebbe essere questo il destino dei 29 tribunali per i minorenni italiani che, dopo quasi 100 anni di storia, il governo ha deciso di chiudere e accorpare ai tribunali ordinari. Più che un’ipotesi. Infatti, il disegno di legge “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile” è stato già approvato alla Camera ed è in attesa di calendarizzazione in Commissione Giustizia al Senato.

Una scelta di razionalità, secondo la maggioranza: creare delle sezioni dei tribunali specializzate “per la persona, la famiglia e i minori” servirebbe a migliorare l’organizzazione e tagliare gli sprechi. Una scelta scellerata, invece, per tanti (giuristi, docenti universitari e operatori del terzo settore) secondo cui in nome dell’abbattimento dei costi e del ripianamento delle carenze di risorse degli uffici per gli adulti si rischia di smantellare un’eccellenza che ha fatto scuola nel mondo nelle politiche per l’infanzia e che l’Ue, per esempio, considera un modello per il Giusto processo minorile europeo.

Per questa ragione il mondo della giustizia è sul piede di guerra e sono ormai quasi trentamila le firme (tra cui quelle di Valerio Onida e Luigi Ferrajoli, Gherardo Colombo e Luigi Ciotti) all’appello “Salviamo i Tribunali per i minorenni” lanciato dell’Aimmf, l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia. “In questo momento storico, i bambini e gli adolescenti sono i primi a pagare le conseguenze drammatiche che derivano dalla crisi economica, dall’immigrazione e dai tagli alla spesa pubblica negli enti locali” e, proprio in questo momento, “la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza è strategica per il futuro del Paese”. L’invito è quindi a non riformare “frettolosamente un settore così complesso e importante”.

La discussione è aperta, l’esito non del tutto scontato considerando le intemperie parlamentari. La segretaria della Commissione Giustizia del Senato, Rosaria Capacchione (Pd) difende la riforma: “Non c’è nessuno scandalo nel voler ampliare le competenze alla famiglia. Salvaguarderemo le professionalità dei magistrati, ma lo faremo, e si può fare, dentro un ambito allargato”. Secondo il magistrato Francesco Cascini, già capo del Dipartimento della Giustizia minorile, la riforma è giusta nella parte in cui prevede “una più razionale distribuzione delle risorse”, ma è “sbagliata nella misura in cui non assicura l’esclusività e la specializzazione dei magistrati”. Il presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, boccia in toto il provvedimento e sottolinea un problema in più: “Senza autonomia dei tribunali dei minori, si perderebbe certamente il loro ruolo fondamentale di punto di riferimento territoriale, la loro capacità di colmare dei vuoti, il loro compito di coordinamento tra le istituzioni, il terzo settore e il territorio”. E aggiunge: “Ci sono attività che non fanno statistica per i ministeri ma sono fondamentali per il nostro lavoro che deve intervenire nelle contraddizioni. Il luogo e il tempo, per esempio, sono elementi decisivi. Non sono sicuro che con l’accorpamento dei tribunali dei minori a quelli ordinari potrebbero esserci le stesse opportunità e la stessa efficacia” che, per esempio, hanno consentito di raggiungere dei buoni risultati con i figli dei boss della ‘ndrangheta. E il governo lo è?

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Porta di Roma, se il centro commerciale è la nuova piazza della capitale (Pagina99)

Essere Viktor Navorski si può. Certo, magari è impossibile diventare cittadino della Cracozia. È facile però vivere in un nonluogo e – proprio come il personaggio interpretato da Tom Hanks in “The Terminal” –  dopo uno smarrimento iniziale, trovare una dimensione, sentirsi persino appagato. Può succedere per esempio a Porta di Roma, la più grande galleria commerciale italiana, nata 10 anni fa nel punto in cui l’autostrada che viene da nord taglia il Grande raccordo anulare. Una gigantesca astronave da 150mila metri quadri nel quartiere Bufalotta con 250 negozi su due livelli, Ikea e Leroy Merlin. Un polo che ogni anno attrae 18 milioni di visitatori per lo shopping, una quantità impressionante di eventi o una passeggiata per stare in compagnia.

 Arrivano in tanti a Porta di Roma. Eppure non è facile: non c’è traccia della metro e avventurarsi con i bus – Google maps lo conferma – può significare perdersi. L’unica opzione è l’auto: prendere il Gra – lo svincolo sbocca “dentro” il centro – o attraversare il terzo municipio (oltre 200mila abitanti). Passare davanti ai grigi palazzoni di via di Val Melaina, perlustrare via delle Vigne Nuove. Scoprire piazzale Ennio Flaiano, con il “Flaiano centro acquisti”, la gloriosa galleria commerciale “rovinata” proprio dall’avvento di Porta di Roma, il centro sportivo Delle Vittorie e il degradato parcheggio, un tempo salotto di “Cinema Fuori”, la rassegna “adottata” da Ken Loach.

Percorrere infine via Giuseppe De Santis, strada di confine tra il vecchio quartiere malconcio e quello nuovo, con i palazzi eleganti e costosi. Un cambio di paesaggio repentino, che conduce dritto dentro Porta di Roma. La maestosa Galleria (la gestione immobiliare frutta a Klepierre 36 milioni l’anno) è la rappresentazione plastica di un sogno (tradito?) che viene da lontano. Addirittura dagli Anni 60, quando per quell’area si progetta (ma non si realizza) un polo logistico per le merci. Cambia lo scenario negli Anni 90: i proprietari dei terreni – i costruttori Toti e Parnasi – chiedono un cambio di destinazione d’uso delle aree. Un programma in linea con le idee dell’allora sindaco Francesco Rutelli. E con il progetto delle Centralità del successore Walter Veltroni: 18 “città nella città”, con il decentramento di servizi, uffici e funzioni. Bufalotta doveva essere una di queste: su un’area da 330 ettari, sarebbe nato un quartiere per 10mila persone, con aree verdi, strutture ricettive, commerciali e un centro direzionale. Le cose però vanno a rilento e presto la Centralità si riduce a un agglomerato di case e un centro commerciale. È il frutto avvelenato di un’ubriacatura politica (complici i cosiddetti “palazzinari”) che, senza un vera pianificazione, a cavallo tra gli Anni 90 e 2000 favorisce la nascita di oltre 40 centri commerciali, considerati (anche) strumenti per cambiare il volto delle periferie.

“Il nuovo polo – annuncia Veltroni inaugurando Porta di Roma nel luglio 2007 – rappresenta una grande ricchezza per il territorio. Soprattutto per 2000 giovani che qui lavoreranno”. A quell’epoca gli shopping center sembrano il futuro. E ancora oggi, nonostante i venti di crisi che soffiano dagli Usa e alcune chiusure in Italia, il settore resta solido con un fatturato (al netto d’iva) di 51 miliardi, un peso del 3,2% sul Pil e due miliardi di visitatori.

 Non paiono numeri a caso, arrivando un sabato mattina. Il parcheggio è già affollato e, a fatica, si trova un buco in quel gigantesco dedalo da 7000 posti. La galleria commerciale – luci sparate, insegne colorate, marmi lucidati – è come una città appena sveglia: facce assonnate si mescolano al nervosismo di chi va già “a mille”. Qualcuno osserva il cartello con l’elenco dei negozi. Ci rinuncia subito, si tuffa nella folla per la prima “vasca”. I corridoi sono già pieni, i negozi quasi tutti vuoti. C’è fila soltanto al bar e inizia a riempirsi il supermercato Auchan. Un po’ a sorpresa, c’è gente anche al cinema (14 sale), aperto da mattina a notte. All’uscita del primo spettacolo una bella coppia di nonni, per mano due bimbi. Lui ha visto “Silence”, lei “Oceania” con i nipoti. “Veniamo spesso: è pratico per il parcheggio e ci sono gli sconti”, dicono.

“La mattina vengono soprattutto anziani e disoccupati di zona, nel weekend anche i bambini”, racconta Luca, 32 anni, che ha rinunciato a un tempo indeterminato da Auchan (dove attaccava alle 4,30 del mattino) per un determinato al cinema (dove spesso stacca alle 3,30). Avrebbe voluto fare il grafico, ma fare la maschera in sala gli piace: “Questo non è solo un posto per il dopo shopping – spiega –  è anche e soprattutto il cinema del quartiere”. E dei lavoratori “che vengono in tanti”. Sì, perché la loro esistenza a volte rischia di esaurirsi lì dentro. Come spiega Marta, 29 anni, gli ultimi 7 passati a Porta di Roma, e la vita incredibilmente scandita da un contratto a tempo determinato da 20 ore a settimana (e 600 euro al mese, più straordinari). “Noi del cinema siamo fortunati: pagati meglio e con contratti migliori dei colleghi del supermercato o dei fast food: lì ci sono anche voucher e contratti con le agenzie interinali”.

Con un entusiasmo inusuale Marta rivela la sua giornata tipo: “Esco di casa alle 14 e arrivo alle 15, un’ora prima dell’orario di ingresso, per portare il caffè ai colleghi. Facciamo la pausa sigaretta per raccontarci la giornata”. Il problema è che “va sempre nello stesso modo”. Ma tu lo accetti: “Non farlo, significa perdere il lavoro: se non ci sei tu, ci sarà un altro”. Tanto vale cercare il bello di questa vita. “I colleghi, con la loro straordinaria umanità, sono la parte migliore”, ma la conseguenza è che “da qui non esci mai”, sentenzia. E diventi parte di una grande, eterogenea – e circoscritta – comunità.

Scoccate le 13, migliaia di romani si sono ormai riversati dentro Porta di Roma e i corridoi da spaziosi diventano improvvisamente angusti. I ristoranti sono presi d’assalto. Ce n’è per tutti i gusti: il Mc Donald’s, naturalmente. Ma anche la trattoria di pesce e la pizzeria, la bisteccheria e il self service, la piadineria e il bar che fa panini ma prepara anche il sushi, il locale arabo e il bistrot che tiene appesi in bella mostra decine di prosciutti. All’ora di pranzo c’è la fila dovunque, ma in realtà i locali sono pieni a tutte le ore: si mangia sempre, come se si smarrisse la dimensione del tempo, della fame.

E della fatica. Complici i saldi, infatti, frotte di persone pronte a tutto invadono i negozi a caccia di un buon affare. Anna – sulla quarantina, le mani piene di buste – racconta soddisfatta: “Siamo venuti da Tivoli, comprare qui conviene”. Insieme a lei il marito – sulla faccia una smorfia di noia – e due bambini che, felici, mangiano un gelato. Di fianco, una famiglia di tre persone: “Ne approfittiamo per comprare il cappotto alla bambina”. Non l’hanno ancora trovato e prendono fiato prima di rituffarsi nella mischia. Passa una coppia di trentenni che ha “svaligiato” un negozio di abbigliamento.

“Gli sconti sono solo sulle cose dell’anno scorso”, accusa un 50enne, forse per giustificare di essere lì senza acquistare. “Vengo spesso a fare due passi”, aggiunge. Non è l’unico: in migliaia passeggiano senza mai varcare la soglia di un negozio. “Fuori fa freddo”, dice un’energica signora uscendo da un bar. “Meglio qui che per strada”, le fa eco un distinto signore sulla sessantina, dando di gomito a un amico: sono due che ti aspetteresti di trovare fuori da un cantiere a curiosare sui lavori. Ci sono persone d’ogni tipo, di ogni età. Alcune comprano, altre no. Sono però tutte accomunate dalla voglia di starci e da un particolare: nessuno toglie il cappotto, nonostante il caldo. È la strana democrazia del centro commerciale.

Nella zona dellle poltrone iperlussuose c’è il pienone: un uomo in giacca e cravatta sfoglia un volantino, un giovane padre prepara la pappa per la sua bambina, due ragazzi – sembra incredibile – mangiano un panino portato da casa, una badante straniera – accompagna un’anziana in sedia a rotelle – prende fiato. C’è anche un gruppo di ragazzini della zona: “Stanno tutti qui, dove dovemo anna’?”. E poi “guarda quello che c’è?”, indicano – imbarazzati e compiaciuti – due belle coetanee che sfrecciano senza degnarli di uno sguardo.

C’è un fiume che scorre per ore lungo i corridoi. E c’è chi lo osserva e immagina storie. “Li conosco tutti, uno per uno”, sottolinea Angela, che lavora per un operatore telefonico. “Potrei raccontare le loro vite”, ride. Scherza, ma non troppo. D’altra parte è come in un paese: dopo un po’, riconosci le facce, impari le abitudini di ognuno.

Chi ha a che fare con i telefoni poi ha un osservatorio privilegiato: gli smartphone sono l’anima del nostro tempo. Da Mediaworld – pieno come un uovo – si vendono smartphone come caramelle. Le compagnie telefoniche sono dovunque – hanno sia i negozi sia i gazebo, ad ogni passo qualcuno ti offre una nuova promozione – e dovunque c’è ressa. In tutti i posti, tranne uno. Saltano agli occhi i due giovani promoter, seduti fianco a fianco: chiacchierano e, complici, non si preoccupano dei contratti. “Certo, abbiamo un fisso – rivelano – ma lo stipendio vero si fa a percentuale”. Non è menefreghismo, insomma. È che a volte i soldi non sono tutto.

“È il modo per non restare schiacciati da questo posto, farlo diventare un po’ tuo – riprende Marta – È la tua piazza: sai dove andare per il caffè, dove è più buona la pizza, dove c’è il barista simpatico, dove incontrare gli amici”. E utilizzi l’ufficio postale e, se ne hai bisogno, il centro medico della Croce rossa, la lavanderia. Non per tutti è così. Ci tiene a dirlo il commesso di un negozio di oggettistica: “Meno ci sto, meglio sto”. Gli danno man forte i colleghi. Ciascuno ha il suo modo di stare a Porta di Roma.

Fuori c’è ancora un filo di luce. I bambini pattinano sul ghiaccio sulla pista allestita per Natale. Di fronte, un centinaio di gradini conducono a una terrazza sterminata e grigia: dovevano nascere 4 campi da tennis e 2 da calcetto, la palestra e la piscina. C’è solo una sala slot. Nascosti tra i bocchettoni dell’aria condizionata e le canne fumarie, due adolescenti cercano un po’ di intimità. Nessuno si gode la vista: le montagne innevate in lontananza e le luci del call center Almaviva, che ha appena mandato a casa 1600 lavoratori, e il nuovo enorme tempio dei mormoni in costruzione. Tutto intorno è un paesaggio di palazzi e gru, segno che i lavori sono in corso. Ma nel quartiere sorto a cavallo di viale Carmelo Bene – per anni, un dormitorio – cominciano a prendere vita negozi, servizi, studi professionali. Non basta, secondo i cittadini. Che chiedono ai costruttori di “Porta di Roma” la valorizzazione del Parco delle Sabine (un ettaro e mezzo di verde), il parco archeologico, l’illuminazione e le infrastrutture di interconnessione con la città. Era nei patti, sostengono.

Verso sera, la Galleria commerciale è ancora piena. Qualcuno si ferma per cena, gruppi di genitori siedono stremati sulle panchine mentre i bambini ancora saltellano. Tantissime persone con i carrelli della spesa scendono ai parcheggi. Dalle scale mobili spunta qualche ritardatario. È il momento del conto alla rovescia prima della chiusura: fa uno strano effetto. Così, dopo una giornata a resistere alla tentazione di acquistare, entri nel negozio ad angolo corteggiato per ore e compri un paio di scarpe. “Ci sono gli sconti”, ti giustifichi.

È tardi. I vigilanti fanno defluire gli ultimi clienti e le saracinesche sono ormai abbassate. Dietro un’immensa vetrata, i ragazzi della Apple lucidano gli schermi di telefoni e Ipad presi a ditate da nerd e curiosi. Scherzano e discutono: un ragazzo abbraccia una collega. Forse si sta scusando, lei si irrigidisce. C’è un silenzio. Era inimmaginabile appena un attimo prima. Continui a camminare, le prime voci le senti nei pressi del cinema. C’è il pienone: ultimo atto “aperto” al pubblico di un luogo che non dorme mai (c’è sempre qualcuno a lavoro, anche nel cuore della notte).

“Porta di Roma è una città che si autoalimenta, ha le sue leggi e le sue storie – dice ancora Marta – Qui nascono storie, amicizie e amori”. D’altra parte, “noi viviamo qui. Anche il 25 dicembre e il 1 gennaio ci siamo: facciamo il pranzo di Natale insieme. Tutti gli anni, il 26 dicembre organizziamo una tombolata”. Come nelle tradizioni familiari. “Certo, siamo diventati la nostra famiglia”.

“È come stare sul ponte di una nave sempre pronta a partire”, riflette fumando una sigaretta sul terrazzo, sullo sfondo il rumore dell’aria condizionata. Quando sei con gli altri, “non importa se sono realizzabili i sogni, ti sembra di incalzarli”. Marta s’è laureata e vuole fare la consulente del lavoro, “la mia amica desidera un attico a Manhattan. Chi ce la farà?”, ride. Poi però ti accorgi che tutta quella vita è un trucco e “la nave non parte mai”. Un sentimento che sta segnando nel profondo una generazione. Alla fine “ti guardi intorno, ti scambi un sorriso. E ti accontenti”. Già.

Passata la mezzanotte, al parcheggio sono rimaste poche auto. Tra queste, anche quella del signor E., un pensionato sulla settantina. “Durante il giorno gira nella Galleria, la sera viene al cinema”, un po’ per svago, un po’ per ripararsi dal freddo. Da quando ha divorziato vive in un angolo di Porta di Roma e dorme in macchina. Forse E. non si sente su una nave pronta a partire come i più giovani. Piuttosto s’immagine su un vascello appena rientrato da un lungo viaggio. Di sicuro, come Viktor Navorski, ha trovato il suo posto in un nonluogo. E, per il momento, chissà, gli va bene così.

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Da Tor Bella Monaca a Finocchio, la rabbia nelle borgate di Roma (Pagina99)

15“Sì, qualche volta sì”. Quando gli domandi se gli capita di pensare che s’è messo in un bel guaio, lui sospira, si lascia andare a una risata amara e ammette che sì, ci pensa. Altroché se ci pensa.

Roberto Romanella, vigile del fuoco di 52 anni, da quattro mesi è presidente del Sesto municipio di Roma, un territorio monstre, 113 km quadrati di periferia per 260mila abitanti. Come una media città italiana.

Il municipio più difficile e più povero (con un reddito medio di appena 17mila euro: gli altri superano i 20mila, con punte oltre i 40), il più disagiato (alcuni quartieri sono persino senza l’acqua corrente): quello di Tor Bella Monaca e della droga, dell’università di Tor Vergata e del (mancato) villaggio olimpico di Roma 2024, del film rivelazione “Lo chiamavano Jeeg Robot” e del campo rom (Salone) più grande d’Europa.

Il municipio dei topi che “giocano” al parco con i bambini. Le immagini hanno fatto il giro del mondo: i ragazzini ne hanno contati – e ripresi con il cellulare – 25 in cinque minuti.

Lo scandalo è planetario – in questi giorni a Tor Bella Monaca gira una tv giapponese – la sindaca Virginia Raggi si precipita sul posto e ordina le pulizie straordinarie. Tutto inutile, o quasi: la situazione torna presto a livelli di emergenza. Così i cittadini, ogni giorno e in tanti, bussano alla porta del presidente. Chiedono più servizi, ricevono come risposta la promessa di un impegno, quasi mai una soluzione.

“I problemi sono enormi, le risorse insufficienti, i tempi burocratici lunghi. E noi non abbiamo poteri”, afferma preoccupato Romanella. “Ci sto perdendo il sonno: ogni notte mi sveglio all’improvviso e penso alle cose da fare”, confessa. Inutile provare a spiegare che “spesso non dipende da noi”: i cittadini pretendono i fatti. D’altra parte la politica di oggi è così, anche per responsabilità di chi sull’antipolitica ha costruito il suo consenso.

Tanto consenso. E tante aspettative. Roberto Romanella è il più votato tra i 12 (su 14) presidenti di municipio eletti dal Movimento 5 Stelle alle amministrative: ha sfiorato il 73%, lasciato il Pd fuori dal ballottaggio e azzerato la sinistra, succedendo al potente Marco Scipioni (Pd), sfiorato dalle inchieste e sfiduciato dal suo partito.

“Qui s’è alzato un grido di dolore”, racconta. Così oggi il suo municipio è l’avanposto della rivoluzione (tutt’altro che iniziata) grillina nella Capitale. Romanella lo sa: “Sentiamo forte il carico, governare è difficile ma ci vogliamo provare”. E promette: “Un po’ alla volta, cambieremo le cose. Ai miei assessori dico sempre: niente parole, facciamo le cose con le mani”. Tra mille difficoltà, “in questi giorni sono partite le prime manutenzioni a strade, scuole e giardini”. La politica dei piccoli passi, favorita da un’opposizione silente e dalle polemiche che da mesi avvolgono il Campidoglio.

“Il M5S ha finalmente capito la differenza tra fare i comitati e governare – commenta Federica Graziani, direttrice del giornale del territorio “La Fiera dell’Est” – la giunta è evanescente, ci sono pochi consigli municipali, le commissioni non producono. Mancano progettualità, indirizzo politico e capacità di decidere: elementi essenziali in questo territorio così particolare”.

È un grande, irregolare e contraddittorio mosaico quello che emerge osservando dall’alto questo pezzo di Roma. Vale la pena attraversarlo, scoprirne alcune tessere. Seguendo il tracciato della Metro C, nuova e preziosa spina dorsale del municipio, un lungo serpente nato per unire l’estrema periferia est con il centro.

PANTANO. La prima tessera è al capolinea, alla stazione Pantano – wc e scale mobile fuori servizio – al km 20 di via Casilina. Lì intorno, due grandi parcheggi quasi pieni: segno che, dopo mesi di “diffidenza”, in tanti adesso usano la linea C. All’uscita, pochi negozi e un benzinaio, un panificio noto in tutta la zona, una vaga aria di tristezza e la tentazione di risalire sulla metro e tornare a casa. Finché, dietro l’angolo, s’intravede un pezzo dell’antico acquedotto romano, vero prodigio architettonico. Nessuno lo direbbe, ma siamo in una delle principali zone archeologiche della Capitale.

“Sogno – rivela il presidente del municipio – di valorizzare il sito dell’antica città di Gabii”. Un’area semisconosciuta che “potrebbe stare nei percorsi turistici di chi va a Tivoli o ai Castelli”. Proprio volgendo lo sguardo verso i Castelli, diventa precisa la percezione di stare in un posto pieno di risorse. “Scalando” la collina, Roma – il più grande comune agricolo d’Europa – si trasforma infatti in un enorme vigneto pregiato, quello del vino Frascati, che già qualche millennio fa piaceva a Catone il censore, che 50 anni fa ha conquistato la denominazione Doc e oggi sta su migliaia di tavole italiane.

FINOCCHIO. Alla fermata Finocchio lo scenario cambia. Qui, in via Rocca Cencia, importante strada commerciale, Roma si gioca una delle partite più importanti: quella sui rifiuti. Sembrano preannunciarlo gli enormi cumili di immondizia che invadono le strade. Come via Sant’Alessio, dove scarti alimentari e divani, materiali edili ed elettrodomestici accompagnano l’asfalto per chilometri. Come via Camigliatello Silano, dove i rifiuti bloccano la carreggiata e addirittura impediscono il transito. “Siamo fuori controllo”, scuote la testa il cliente di un bar pieno di affollate slot. Tutto a pochi metri dall’impianto di Ama, la municipalizzata dei rifiuti. “A breve ripartirà”, annuncia la sindaca. Ma la vera questione – economica oltre che ecologica – riguarda l’impianto di proprietà, manco a dirlo, di Manlio Cerroni, dominus della monnezza romana. Lo scontro sull’utilizzo del tritovagliatore, finito nel mirino dei magistrati, ha portato alle dimissioni dell’ex capo di Ama Daniele Fortini, in polemica con l’assessore all’Ambiente Paola Muraro. In una fase di grande instabilità politica, il futuro degli impianti di Rocca Cencia resta incerto. Di sicuro c’è invece un continuo viavai di camion e un cattivo odore sempre più intenso che esaspera i cittadini.

BOLOGNETTA. La terza tessera del mosaico, a 400 metri dalla stazione Bolognetta, viene da lontanto, dal 2001, quando un’area di 13mila metri quadri viene sequestrata al cassiere della Banda della Magliana, Enrico Nicoletti. Aveva costruito un palazzo di sei piani, voleva farci un albergo. Non c’è riuscito. Lì oggi c’è un parco pubblico, con piante, marmi pregiati e il primo murale antimafia di Roma. C’è la Collina della Pace, attraversata ogni giorno da centinaia di persone. Non era scontato. La battaglia – con infiniti stop&go – è stata dura. Il passo decisivo, lo scorso aprile con l’inaugurazione dei due casali. In uno hanno aperto una biblioteca (una delle 4 del territorio) con 30mila volumi, alcuni dei quali donati dall’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel più piccolo doveva nascere un centro culturale polivalente, c’è invece un centro anziani. L’Associazione Collina della Pace denuncia il tradimento del progetto che, spiega Andrea Colafranceschi, di Libera, “doveva stimolare creatività e partecipazione”. Non è andata così, non ancora.

GROTTE CELONI. La stazione di Grotte Celoni separa la gigantesca Tor Bella Monaca e il piccolo villaggio Breda. Tor Bella Monaca con i suoi 30mila abitanti, le torri a 15 piani e i palazzoni di edilizia popolare (nel municipio, soprattutto tra Tor Bella Monaca e Ponte di Nona, c’è il 60% dell’edilizia popolare romana) è la dimostrazione del fallimento delle politiche urbanistiche che hanno ridotto la borgata in luogo di disagio, povertà e criminalità.

Il centro del quartiere è viale dell’Archeologia dove c’è il più grande mercato della droga cittadino, che ricorda quello delle vele di Scampia. Qui lavorano molti gruppi criminali, anche le mafie tradizionali. Fanno affari milionari e assicurano un welfare parallelo alle famiglie: 500 euro al mese se custodisci la roba, “200 a sera” se la spacci, “da 50 a 80” per le vedette. “Alcuni prendono stipendi da mille euro”, rivela un operatore sociale. Per un omicidio ne porti a casa 10mila. Ma Tor Bella Monaca è anche la più grande stanza del buco a cielo aperto. Nella pineta ai piedi di via dell’Archeologia, presidia il territorio il camper della fondazione “Villa Maraini”, che si occupa di riduzione del danno. Racconta un operatore: “Ogni giorno distribuiamo 300 siringhe”. A giovanissimi e adulti, uomini e donne, ricchi e poveri. La metà consuma eroina, gli altri cocaina (che costa sempre meno). Alcuni si bucano in macchina, altri seduti sul prato, dove gli aghi ormai sono più dei fili d’erba. Uno strazio.

Al villaggio Breda è tutto diverso: nato al servizio di una vecchia fabbrica, oggi è un quartiere ordinato e pulito, con case basse e cortili curati, la farmacia e la chiesa, il bar e la piazza. La dimensione di un paesino accogliente, tanto che viene voglia di fermarsi per un caffè e due chiacchiere. A poche centinaia di metri, lo stacco visivo è ancora più importante. C’è il consorzio Torre Gaia, il gigantesco residence della borghesia con villette e giardini che non sfigurerebbe nella ricca Roma Nord.

A Torre Angela, tipica periferia italiana, con auto in coda e capannoni commerciali, sembra essersi nascosta via delle Amazzoni. Al numero 34, una scoperta straniante: la chiesa apostolica, un movimento di cristiani protestanti, che raccoglie ogni domenica centinaia di cittadini africani, soprattutto nigeriani. La chiesa è uno spoglio garage con teli colorati alle pareti. Anche l’enorme croce sull’altare è realizzata con raso giallo. All’interno una rock band suona le canzoni di preghiera a un volume insopportabile davanti a un centinaio di fedeli – uomini e donne stanno divisi – che indossano abiti tradizionali con colori sgarcianti. Si canta e balla con energia contagiosa, come in una scena di Sister act. I fedeli pregano e aspettano il pastore, un nigeriano sulla quarantina (da 20 anni in Italia). Si chiama Lucky O. Omoghan, prepara il sermone, chiuso nel minuscolo ufficio ricavato in un angolo del garage. “Più di 500 fratelli frequentano la nostra comunità”. Nessuno di loro è bianco, ma “contro di noi non c’è più razzismo, non viene più la polizia”, rivendica. Eppure fuori da qui è diverso. In questo municipio – che ospita numerose comunità straniere e 15 dei 39 centri di accoglienza romani – la tensione è sempre altra e gli episodi di intolleranza frequenti, spesso favoriti dal soffiare sul fuoco dei gruppi di estrema destra.

TORRE MAURA. La stazione di Torre Maura è la prima della metro C dentro il Gra. Qui, grazie a Save the children, è in corso una grande sperimentazione sociale. In via Walter Tobagi, a ridosso del Parco di Tor Tre Teste, è nato un Punto luce (un altro è a Ponte di Nona). Un luogo bello e colorato – due strutture di cemento e vetro, con arredi moderni, e un campo sportivo polifunzionale – aperto a bambini e ragazzi da 6 a 16 anni.

“C’è isolamento e un’importante carenza di servizi”, racconta Elio Lo Cascio, referente romano del programma di contrasto alla povertà educativa dell’associazione. I numeri sono eloquenti: il 35% della popolazione ha meno di 18 anni (è il territorio più “giovane” della città), c’è la più alta percentuale di dispersione scolastica (il 15%, contro la media cittadina del 9), ci sono soltanto il 25,7% di diplomati (la media è del 34%) e appena il 3% (contro il 14,9) di laureati. Ecco perché diventa strategico intervenire con l’accompagnamento allo studio e i laboratori di arti e sport. Ogni trimestre passano da lì 250 bambini, il tentativo è di intercettarne molti di più. Anche per questo, come sottolinea Elio Lo Cascio, “lavoriamo anche con le famiglie: forniamo assistenza legale e abbiamo aperto un servizio di sostegno alla genitorialità”. I risultati di questa sfida impossibile saranno misurabili tra qualche anno, ma mostrare ai più giovani le opportunità nascoste dietro il brutto è un buon inizio.

L’ULTIMO MIGLIO. Dalla fermata successiva, da Torre Spaccata, la Metro C lascia il Sesto municipio, entra nel Quinto e, veloce, corre verso il Primo. Senza arrivarci mai. Metafora della solitudine dei cittadini del Sesto municipio. “Nel cuore di Roma si sta costruendo la metropolitana più complessa e straordinaria del mondo”, c’è scritto sul sito di MetroSpa. Eppure, ad oggi, questo prodigio della tecnica s’interrompe alla fermata Lodi. Un passo prima di congiungersi – a Piazza San Giovanni – con le altre linee, molto prima di raggiungere davvero il centro storico. Un sogno interrotto, insomma. Il simbolo, forse il paradigma, di una città che corre, si sbraccia e suda. Ma non taglia mai al traguardo.

*Pubblicato su Pagina99

Le Olimpiadi a Roma e le chiacchiere al bar

Non sono né favorevole né contrario – per partito preso – al fatto che Roma organizzi le Olimpiadi (manifestazione che peraltro amo e seguo con passione e attenzione). Sarò banale: mi piacerebbe che ci fossero ed eviterei di uccidere una città per andare all’Olimpico a vedere la finale dei cento metri con l’erede di Bolt. Sono perciò convinto (altra ovvietà) che la discussione sulle Olimpiadi debba essere seria: stiamo parlando di un evento che non riguarda il destino della Raggi, la superbia del M5S, l’arroganza del Pd e le – davvero piccole – beghe della sinistra, ma la vita economica e sociale del Paese e quella (anche concretissima, di tutti i giorni) di qualche milione di romani.

de-magistris-ed-emilianoRagionare dentro il bar sport in cui ci confinano i giornali o certi imprenditori, dibattere in termini di propaganda o di convenienza politica come ci suggeriscono alcuni personaggi è quindi assolutamente inaccettabile, oltre che irragionevole. Se una discussione deve esserci – e io penso che sia salutare e necessaria – si faccia a partire da qualche dato di realtà.

Le cifre, per esempio. E le opportunità di sviluppo e crescita. Indicare numeri a caso (esercizio molto semplice di propaganda politica usato su tutte le grandi opere) è segno di debolezza e di inadeguatezza: agitiamo pure i miliardi e i posti di lavoro, le opere nuove e le ristrutturazioni, ma partiamo anche dal fatto che tutte le ultime Olimpiadi, tutte quelle post 1984 (Los Angeles) hanno chiuso il loro bilancio in passivo (pesantemente in passivo) con costi economici e sociali piuttosto pesanti per gli Stati, le città, le popolazioni. E questo nonostante i soldi (peraltro del tutto insufficienti) che il Cio mette sul piatto (e che, è vero, senza Giochi non ci sarebbero). Londra, dice l’Università di Oxford, ha incassato 3 miliardi, ma ne ha spesi 10. E allora mentre a Roma si discute di dove realizzare il villaggio olimpico (ovviamente, visti gli interessi in gioco!), nel mondo si ragiona del fatto che è  il “Modello Olimpiadi” in sé a non funzionare – in nessun posto, non solo in Italia. Per questo molte città (Amburgo, Boston, Madrid, San Diego e Dubai, scrive Ettore Livini su Repubblica di qualche giorno fa) si tirano fuori dalla competizione. Non in tutti questi posti governa (?!) Virginia Raggi.

Partire da qui, consiglierebbe per esempio al comitato promotore Roma 2024 di non limitarsi a fare la pubblicità o a ricordarci che a Roma c’è il Colosseo. Potrebbero farci capire dove starebbe (e come si sostanzierebbe) la discontinuità rispetto ai modelli passati. Fin qui non s’è capito.

Partire da qui, imporrebbe una pulizia della discussione pubblica. Così come, sul piano politico, al di là delle interviste – alcune incommentabili – di queste ore di imprenditori, politici, sportivi, esponenti dell’associazionismo, fare chiarezza sulle posizioni in campo sarebbe piuttosto utile e sano. Quando nelle scorse settimane la propaganda pro Olimpiadi ha messo in campo (falsamente!) l’ipotesi Milano (per fare pressione su Roma) il sindaco – il più renziano degli eletti all’ultima tornata elettorale – Beppe Sala ha scritto così: “Sono sempre stato favorevole ai Grandi Eventi e sono convinto che possano essere una grande opportunità per la città che li organizza. In questo caso, però, si tratta di una situazione particolare. Secondo le regole del CIO non si può sostituire Milano a Roma nella candidatura alle Olimpiadi 2024. Bisognerebbe quindi pensare all’edizione del 2028 (nel caso l’edizione 2024 fosse assegnata a una città non europea) o addirittura del 2032.
Viste le urgenze di oggi, penso non sia questo il momento giusto per parlarne. Togliamo il tema dal tavolo e affrontiamo questioni più importanti per i milanesi e gli italiani”. Visto che non credo che il Cio abbia introdotto delle regole che riguardano soltanto Milano, mi chiedo come giudicare la sortita twitter del più antirenziano dei sindaci, il napoletano Luigi De Magistris, (subito seguito da Michele Emiliano) che offrono Napoli e il Sud (in un progetto peraltro affascinante sul piano evocativo) come sede per le Olimpiadi. Ecco, io credo che in una discussione seria si dovrebbe chiedere conto a Beppe Sala e a Luigi De Magistris delle proprie parole. Non so chi tra Sala e De Magistris abbia ragione, so che le due posizioni mi sembrano inconciliabili.

Senza liberare le nostre parole da queste scorie, ogni posizione sarà legittima, ma probabilmente strumentale (o strumentalizzata). A volte ridicola, sempre certamente viziata. Una discussione su queste basi ha tanto il sapore della lotta di potere, dell’interesse economico di pochi, della piccola battaglia di posizionamento. E non potrà quindi servire al bene delle romane e dei romani.

Ps.
Non incoraggia il sì alle Olimpiadi il fatto che le guiderebbero Montezemolo e Malagò.
Non ha senso decidere ragionando della presenza delle mafie o della corruzione del nostro Paese (ci troveremmo costretti a chiudere troppe cose del nostro Paese!).
Una classe dirigente che si candida a governare una città ha il diritto e il dovere di decidere, soprattutto se in campagna elettorale ha preso i voti su una posizione politica. Invocare il referendum – senza peraltro esplicitare il proprio punto di vista – somiglia tanto a una scorciatoia.

#perpietà