Essere Viktor Navorski si può. Certo, magari è impossibile diventare cittadino della Cracozia. È facile però vivere in un nonluogo e – proprio come il personaggio interpretato da Tom Hanks in “The Terminal” – dopo uno smarrimento iniziale, trovare una dimensione, sentirsi persino appagato. Può succedere per esempio a Porta di Roma, la più grande galleria commerciale italiana, nata 10 anni fa nel punto in cui l’autostrada che viene da nord taglia il Grande raccordo anulare. Una gigantesca astronave da 150mila metri quadri nel quartiere Bufalotta con 250 negozi su due livelli, Ikea e Leroy Merlin. Un polo che ogni anno attrae 18 milioni di visitatori per lo shopping, una quantità impressionante di eventi o una passeggiata per stare in compagnia.
Arrivano in tanti a Porta di Roma. Eppure non è facile: non c’è traccia della metro e avventurarsi con i bus – Google maps lo conferma – può significare perdersi. L’unica opzione è l’auto: prendere il Gra – lo svincolo sbocca “dentro” il centro – o attraversare il terzo municipio (oltre 200mila abitanti). Passare davanti ai grigi palazzoni di via di Val Melaina, perlustrare via delle Vigne Nuove. Scoprire piazzale Ennio Flaiano, con il “Flaiano centro acquisti”, la gloriosa galleria commerciale “rovinata” proprio dall’avvento di Porta di Roma, il centro sportivo Delle Vittorie e il degradato parcheggio, un tempo salotto di “Cinema Fuori”, la rassegna “adottata” da Ken Loach.
Percorrere infine via Giuseppe De Santis, strada di confine tra il vecchio quartiere malconcio e quello nuovo, con i palazzi eleganti e costosi. Un cambio di paesaggio repentino, che conduce dritto dentro Porta di Roma. La maestosa Galleria (la gestione immobiliare frutta a Klepierre 36 milioni l’anno) è la rappresentazione plastica di un sogno (tradito?) che viene da lontano. Addirittura dagli Anni 60, quando per quell’area si progetta (ma non si realizza) un polo logistico per le merci. Cambia lo scenario negli Anni 90: i proprietari dei terreni – i costruttori Toti e Parnasi – chiedono un cambio di destinazione d’uso delle aree. Un programma in linea con le idee dell’allora sindaco Francesco Rutelli. E con il progetto delle Centralità del successore Walter Veltroni: 18 “città nella città”, con il decentramento di servizi, uffici e funzioni. Bufalotta doveva essere una di queste: su un’area da 330 ettari, sarebbe nato un quartiere per 10mila persone, con aree verdi, strutture ricettive, commerciali e un centro direzionale. Le cose però vanno a rilento e presto la Centralità si riduce a un agglomerato di case e un centro commerciale. È il frutto avvelenato di un’ubriacatura politica (complici i cosiddetti “palazzinari”) che, senza un vera pianificazione, a cavallo tra gli Anni 90 e 2000 favorisce la nascita di oltre 40 centri commerciali, considerati (anche) strumenti per cambiare il volto delle periferie.
“Il nuovo polo – annuncia Veltroni inaugurando Porta di Roma nel luglio 2007 – rappresenta una grande ricchezza per il territorio. Soprattutto per 2000 giovani che qui lavoreranno”. A quell’epoca gli shopping center sembrano il futuro. E ancora oggi, nonostante i venti di crisi che soffiano dagli Usa e alcune chiusure in Italia, il settore resta solido con un fatturato (al netto d’iva) di 51 miliardi, un peso del 3,2% sul Pil e due miliardi di visitatori.
Non paiono numeri a caso, arrivando un sabato mattina. Il parcheggio è già affollato e, a fatica, si trova un buco in quel gigantesco dedalo da 7000 posti. La galleria commerciale – luci sparate, insegne colorate, marmi lucidati – è come una città appena sveglia: facce assonnate si mescolano al nervosismo di chi va già “a mille”. Qualcuno osserva il cartello con l’elenco dei negozi. Ci rinuncia subito, si tuffa nella folla per la prima “vasca”. I corridoi sono già pieni, i negozi quasi tutti vuoti. C’è fila soltanto al bar e inizia a riempirsi il supermercato Auchan. Un po’ a sorpresa, c’è gente anche al cinema (14 sale), aperto da mattina a notte. All’uscita del primo spettacolo una bella coppia di nonni, per mano due bimbi. Lui ha visto “Silence”, lei “Oceania” con i nipoti. “Veniamo spesso: è pratico per il parcheggio e ci sono gli sconti”, dicono.
“La mattina vengono soprattutto anziani e disoccupati di zona, nel weekend anche i bambini”, racconta Luca, 32 anni, che ha rinunciato a un tempo indeterminato da Auchan (dove attaccava alle 4,30 del mattino) per un determinato al cinema (dove spesso stacca alle 3,30). Avrebbe voluto fare il grafico, ma fare la maschera in sala gli piace: “Questo non è solo un posto per il dopo shopping – spiega – è anche e soprattutto il cinema del quartiere”. E dei lavoratori “che vengono in tanti”. Sì, perché la loro esistenza a volte rischia di esaurirsi lì dentro. Come spiega Marta, 29 anni, gli ultimi 7 passati a Porta di Roma, e la vita incredibilmente scandita da un contratto a tempo determinato da 20 ore a settimana (e 600 euro al mese, più straordinari). “Noi del cinema siamo fortunati: pagati meglio e con contratti migliori dei colleghi del supermercato o dei fast food: lì ci sono anche voucher e contratti con le agenzie interinali”.
Con un entusiasmo inusuale Marta rivela la sua giornata tipo: “Esco di casa alle 14 e arrivo alle 15, un’ora prima dell’orario di ingresso, per portare il caffè ai colleghi. Facciamo la pausa sigaretta per raccontarci la giornata”. Il problema è che “va sempre nello stesso modo”. Ma tu lo accetti: “Non farlo, significa perdere il lavoro: se non ci sei tu, ci sarà un altro”. Tanto vale cercare il bello di questa vita. “I colleghi, con la loro straordinaria umanità, sono la parte migliore”, ma la conseguenza è che “da qui non esci mai”, sentenzia. E diventi parte di una grande, eterogenea – e circoscritta – comunità.
Scoccate le 13, migliaia di romani si sono ormai riversati dentro Porta di Roma e i corridoi da spaziosi diventano improvvisamente angusti. I ristoranti sono presi d’assalto. Ce n’è per tutti i gusti: il Mc Donald’s, naturalmente. Ma anche la trattoria di pesce e la pizzeria, la bisteccheria e il self service, la piadineria e il bar che fa panini ma prepara anche il sushi, il locale arabo e il bistrot che tiene appesi in bella mostra decine di prosciutti. All’ora di pranzo c’è la fila dovunque, ma in realtà i locali sono pieni a tutte le ore: si mangia sempre, come se si smarrisse la dimensione del tempo, della fame.
E della fatica. Complici i saldi, infatti, frotte di persone pronte a tutto invadono i negozi a caccia di un buon affare. Anna – sulla quarantina, le mani piene di buste – racconta soddisfatta: “Siamo venuti da Tivoli, comprare qui conviene”. Insieme a lei il marito – sulla faccia una smorfia di noia – e due bambini che, felici, mangiano un gelato. Di fianco, una famiglia di tre persone: “Ne approfittiamo per comprare il cappotto alla bambina”. Non l’hanno ancora trovato e prendono fiato prima di rituffarsi nella mischia. Passa una coppia di trentenni che ha “svaligiato” un negozio di abbigliamento.
“Gli sconti sono solo sulle cose dell’anno scorso”, accusa un 50enne, forse per giustificare di essere lì senza acquistare. “Vengo spesso a fare due passi”, aggiunge. Non è l’unico: in migliaia passeggiano senza mai varcare la soglia di un negozio. “Fuori fa freddo”, dice un’energica signora uscendo da un bar. “Meglio qui che per strada”, le fa eco un distinto signore sulla sessantina, dando di gomito a un amico: sono due che ti aspetteresti di trovare fuori da un cantiere a curiosare sui lavori. Ci sono persone d’ogni tipo, di ogni età. Alcune comprano, altre no. Sono però tutte accomunate dalla voglia di starci e da un particolare: nessuno toglie il cappotto, nonostante il caldo. È la strana democrazia del centro commerciale.
Nella zona dellle poltrone iperlussuose c’è il pienone: un uomo in giacca e cravatta sfoglia un volantino, un giovane padre prepara la pappa per la sua bambina, due ragazzi – sembra incredibile – mangiano un panino portato da casa, una badante straniera – accompagna un’anziana in sedia a rotelle – prende fiato. C’è anche un gruppo di ragazzini della zona: “Stanno tutti qui, dove dovemo anna’?”. E poi “guarda quello che c’è?”, indicano – imbarazzati e compiaciuti – due belle coetanee che sfrecciano senza degnarli di uno sguardo.
C’è un fiume che scorre per ore lungo i corridoi. E c’è chi lo osserva e immagina storie. “Li conosco tutti, uno per uno”, sottolinea Angela, che lavora per un operatore telefonico. “Potrei raccontare le loro vite”, ride. Scherza, ma non troppo. D’altra parte è come in un paese: dopo un po’, riconosci le facce, impari le abitudini di ognuno.
Chi ha a che fare con i telefoni poi ha un osservatorio privilegiato: gli smartphone sono l’anima del nostro tempo. Da Mediaworld – pieno come un uovo – si vendono smartphone come caramelle. Le compagnie telefoniche sono dovunque – hanno sia i negozi sia i gazebo, ad ogni passo qualcuno ti offre una nuova promozione – e dovunque c’è ressa. In tutti i posti, tranne uno. Saltano agli occhi i due giovani promoter, seduti fianco a fianco: chiacchierano e, complici, non si preoccupano dei contratti. “Certo, abbiamo un fisso – rivelano – ma lo stipendio vero si fa a percentuale”. Non è menefreghismo, insomma. È che a volte i soldi non sono tutto.
“È il modo per non restare schiacciati da questo posto, farlo diventare un po’ tuo – riprende Marta – È la tua piazza: sai dove andare per il caffè, dove è più buona la pizza, dove c’è il barista simpatico, dove incontrare gli amici”. E utilizzi l’ufficio postale e, se ne hai bisogno, il centro medico della Croce rossa, la lavanderia. Non per tutti è così. Ci tiene a dirlo il commesso di un negozio di oggettistica: “Meno ci sto, meglio sto”. Gli danno man forte i colleghi. Ciascuno ha il suo modo di stare a Porta di Roma.
Fuori c’è ancora un filo di luce. I bambini pattinano sul ghiaccio sulla pista allestita per Natale. Di fronte, un centinaio di gradini conducono a una terrazza sterminata e grigia: dovevano nascere 4 campi da tennis e 2 da calcetto, la palestra e la piscina. C’è solo una sala slot. Nascosti tra i bocchettoni dell’aria condizionata e le canne fumarie, due adolescenti cercano un po’ di intimità. Nessuno si gode la vista: le montagne innevate in lontananza e le luci del call center Almaviva, che ha appena mandato a casa 1600 lavoratori, e il nuovo enorme tempio dei mormoni in costruzione. Tutto intorno è un paesaggio di palazzi e gru, segno che i lavori sono in corso. Ma nel quartiere sorto a cavallo di viale Carmelo Bene – per anni, un dormitorio – cominciano a prendere vita negozi, servizi, studi professionali. Non basta, secondo i cittadini. Che chiedono ai costruttori di “Porta di Roma” la valorizzazione del Parco delle Sabine (un ettaro e mezzo di verde), il parco archeologico, l’illuminazione e le infrastrutture di interconnessione con la città. Era nei patti, sostengono.
Verso sera, la Galleria commerciale è ancora piena. Qualcuno si ferma per cena, gruppi di genitori siedono stremati sulle panchine mentre i bambini ancora saltellano. Tantissime persone con i carrelli della spesa scendono ai parcheggi. Dalle scale mobili spunta qualche ritardatario. È il momento del conto alla rovescia prima della chiusura: fa uno strano effetto. Così, dopo una giornata a resistere alla tentazione di acquistare, entri nel negozio ad angolo corteggiato per ore e compri un paio di scarpe. “Ci sono gli sconti”, ti giustifichi.
È tardi. I vigilanti fanno defluire gli ultimi clienti e le saracinesche sono ormai abbassate. Dietro un’immensa vetrata, i ragazzi della Apple lucidano gli schermi di telefoni e Ipad presi a ditate da nerd e curiosi. Scherzano e discutono: un ragazzo abbraccia una collega. Forse si sta scusando, lei si irrigidisce. C’è un silenzio. Era inimmaginabile appena un attimo prima. Continui a camminare, le prime voci le senti nei pressi del cinema. C’è il pienone: ultimo atto “aperto” al pubblico di un luogo che non dorme mai (c’è sempre qualcuno a lavoro, anche nel cuore della notte).
“Porta di Roma è una città che si autoalimenta, ha le sue leggi e le sue storie – dice ancora Marta – Qui nascono storie, amicizie e amori”. D’altra parte, “noi viviamo qui. Anche il 25 dicembre e il 1 gennaio ci siamo: facciamo il pranzo di Natale insieme. Tutti gli anni, il 26 dicembre organizziamo una tombolata”. Come nelle tradizioni familiari. “Certo, siamo diventati la nostra famiglia”.
“È come stare sul ponte di una nave sempre pronta a partire”, riflette fumando una sigaretta sul terrazzo, sullo sfondo il rumore dell’aria condizionata. Quando sei con gli altri, “non importa se sono realizzabili i sogni, ti sembra di incalzarli”. Marta s’è laureata e vuole fare la consulente del lavoro, “la mia amica desidera un attico a Manhattan. Chi ce la farà?”, ride. Poi però ti accorgi che tutta quella vita è un trucco e “la nave non parte mai”. Un sentimento che sta segnando nel profondo una generazione. Alla fine “ti guardi intorno, ti scambi un sorriso. E ti accontenti”. Già.
Passata la mezzanotte, al parcheggio sono rimaste poche auto. Tra queste, anche quella del signor E., un pensionato sulla settantina. “Durante il giorno gira nella Galleria, la sera viene al cinema”, un po’ per svago, un po’ per ripararsi dal freddo. Da quando ha divorziato vive in un angolo di Porta di Roma e dorme in macchina. Forse E. non si sente su una nave pronta a partire come i più giovani. Piuttosto s’immagine su un vascello appena rientrato da un lungo viaggio. Di sicuro, come Viktor Navorski, ha trovato il suo posto in un nonluogo. E, per il momento, chissà, gli va bene così.
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