Di Maria Concetta e di un dibattito anti-‘ndrangheta

Uccise o suicidate cambia poco, almeno rispetto alle nostre responsabilità: non dovevano essere uccise, non dovevano essere suicidate. Di fronte a Maria Concetta Cacciola e alle altre donne morte di ‘ndrangheta, agli oltre 300 omicidi di innocenti trucidati dai clan, siamo tutti colpevoli. Questa consapevolezza è indispensabile, se vogliamo fare finalmente un ragionamento onesto sulle cosche, sulla Calabria. Senza indulgenze, senza ipocrisie, senza scorciatoie. E senza pulpiti impropri.

LA STORIA CHE CAMBIA – La collaborazione lucida e dolorosa di Maria Concetta Cacciola, la sua morte disperata hanno cambiato la storia della ‘ndrangheta. Per sempre. Cetta – in vita e dopo la morte – ha colpito i clan nell’onore e negli affari, ha rotto equilibri immutabili e svelato le regole di un mondo arcaico eppure capace di stare nel contemporaneo. È stato un percorso difficile, contraddittorio, coraggioso il suo. Finito in tragedia, certo. Che rischia di perdersi se non sapremo coglierne l’eredità, che rischiava di naufragare senza l’inchiesta della magistratura che per fortuna ricostruisce i fatti in una terra dove quasi mai gli innocenti hanno giustizia e verità.

LE VERITA’ DI CETTA – Ma la storia di Cetta – la sua vita, la sua collaborazione, la sua morte – non cambia soltanto la storia della ‘ndrangheta. Nel bene o nel male, cambierà anche la storia della Calabria. Cetta ci riconsegna infatti alcune verità, in maniera così forte che a nessuno possono più sfuggire: quella di un sistema familiare (domestico e mafioso) chiuso, ottuso e violento, quello di un patriarcato (o sistema di subordinazione) che genera dipendenza economica, schiavitù psicologica e dominio sessuale, quella di un tessuto sociale che s’è impossessato di parole come onore, rispetto, tradimento e fedeltà (che dobbiamo riprenderci), quello di un apparato istituzionale incapace di costruire efficaci e vitali sistemi di protezione. E quello delle falsità alimentate attorno alla ‘ndrangheta: ci hanno raccontato per anni, per esempio, che il codice d’onore dei clan calabresi impediva di uccidere donne e bambini. “Dimenticati” prima e il nuovo dossier dell’associazione daSud su donne e mafia (in uscita il 24 febbraio) dimostrano numeri e storie alla mano che non è vero.

LE RISPOSTE CHE NON ARRIVANO – Ha fatto anche di più Cetta: senza volerlo, ci ha messi a nudo. Tutti. Ci ha interrogato, e le risposte che ci ha chiesto purtroppo tardano ad arrivare per un vuoto di discussione pubblica (che spero che l’appello del direttore del Quotidiano contribuirà a riempire) o per un disperante, volgare e strumentale dibattito.
Maria Concetta mette in discussione le nostre certezze, il sistema costruito e alimentato da chi fino a oggi ha avuto dei ruoli di responsabilità. Fallimentare, altrimenti non staremmo qui a discuterne. Ci chiede di rovesciare la concezione del potere e di trovare nuovi strumenti per criticarlo. Ci chiede di giocare in campo aperto. Rischiando, certo. Ma sapendo anche che non ci sono molte alternative.

SENZA SCONTI – Partendo da quello che siamo, senza sconti. Dal fragile sistema sociale, del debole – e spesso compromesso – sistema economico e imprenditoriale, dall’imbarazzante e complice sistema politico, dalla commissione d’accesso al Comune di Reggio Calabria, dal nervosismo preoccupante del governo regionale, da un sistema dell’informazione regionale che diffonde più veleni che notizie. E dallo scontro violentissimo che sta avvenendo per la ricomposizione degli assetti che seguirà, tra l’altro, al cambio al vertice della Procura di Reggio Calabria. Avviene sempre così: corvi e veleni, intimidazioni e bombe, omicidi e ferimenti hanno accompagnato tutti i cambi di potere in Calabria.

LA PAROLA STRUTTURALE – E ripartiamo anche dal giudizio della Dna che a proposito del rapporto ‘ndrangheta – Calabria usa la parola “strutturale”. Grave, pesante. Eppure con buoni margini di corrispondenza con la realtà. Che significa che quando si dice che la ‘ndrangheta sta nella società, nell’economia, nella politica e nel potere non si stanno costruendo allegorie, si sta raccontando un metodo di organizzazione di un pezzo di società, addirittura – come ha sostenuto anche l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione – di un pezzo di capitalismo. Che “non c’è – come ha spiegato Giuseppe Pignatone qualche giorno fa – una sola fetta sociale vergine”.

LA ‘NDRANGHETA IN MEZZO A NOI – Ma, per dirla sempre il procuratore di Reggio Calabria, “bisogna sempre distinguere il grano dal loglio”. E cioè non bisogna commettere il duplice errore di pensare che la ‘ndrangheta sta fuori e lontano da noi o, viceversa, che tutto sia ‘ndrangheta dentro e attorno a noi. Quando il Quotidiano della Calabria lanciò la manifestazione contro la ‘ndrangheta decidemmo di partecipare. Sfilammo dietro uno striscione che diceva: “La ‘ndrangheta è viva e marcia insieme a noi… purtroppo”. Abbiamo difeso ed esercitato il diritto agli spazi pubblici in un territorio in cui sono pochi e fragili. Abbiamo spiegato che sapevamo che in quel corteo c’era anche chi avrebbe dovuto restare a casa e sentirsi addosso il disprezzo degli onesti. E abbiamo ribadito una cosa di cui siamo profondamente convinti: se abbiamo compreso davvero la complessità della ‘ndrangheta, l’unità nell’antimafia non può essere un valore a prescindere. Non tutti i percorsi sono uguali: non tutte le istituzioni, non tutti i politici, non tutti gli imprenditori, non tutti i giornali, non tutte le associazioni. Il metro per costruire è quello del rigore da mettere continuamente alla prova, è quello del misurarsi sui fatti.

CHIAROSCURO – Bisogna invece provare a leggere le cose in chiaroscuro, misurando gesti e comportamenti, storie personali e alleanze (tattiche, strategiche o d’interesse) sui fatti, le questioni, le vertenze. Sul lavoro (l’assenza di lavoro e il lavoro nero), le grandi opere e gli appalti, la cura del territorio, la denuncia delle compromissioni vergognose di certa borghesia, le mazzette, il destino dei lavoratori stranieri, la selezione della classe dirigente, il silenzio imbarazzato o sprezzante dei politici sulla cosiddetta area grigia, l’impiego dei soldi pubblici, il senso delle campagne di stampa. E su quanto conviene (o non conviene) fare affari con le cosche in epoca di crisi, su come il sindacato difende i diritti dei lavoratori, su come le libertà vengono calpestate e i diritti negati, sul welfare che scompare, il degrado etico, il garantismo invocato soltanto per i forti, l’assenza di conflitto sociale. Un discorso che vale innanzitutto per le delegittimate (dai fatti) classi dirigenti locali. Ma può applicarsi anche al governo Monti che comprime i diritti sociali, non pronuncia mai la parola mafia e quando si occupa di clan dimostra superficialità, che non rimuove i prefetti incapaci, che non prova nemmeno a intaccare il legame stretto che tra clan e banche, che è sostenuto da una maggioranza che ha salvato Cosentino (e la maggioranza blindata non può valere soltanto per fare la riforma delle pensioni). Tutto in nome della crisi. Eppure i soldi delle mafie per combattere la crisi potrebbero essere utili.
Nel sentiero stretto descritto da Filippo Veltri ieri su questo giornale, bisogna che ciascuno si metta in gioco. Bisogna che chi ci ha consegnato questa Calabria si faccia da parte, e bisogna che la meglio gioventù si prenda finalmente lo spazio che merita per il lavoro prezioso che ogni giorno svolge e che purtroppo finora non è stato messo a sistema: non ci sono altre soluzioni.

LA SOLIDARIETA’ AL CONTRARIO – Con l’associazione daSud abbiamo fatto in questa direzione alcune proposte concrete. Con buona pace di chi trova utile o appassionante (chissà perché) attaccare un giornalista bravo come Giovanni Tizian. Abbiamo lanciato la “solidarietà al contrario”: proponiamo buone pratiche (alcune mutuate proprio dalla Calabria capace di produrre esperienze straordinarie) ad amministrazioni pubbliche e politici, professionisti e imprenditori, associazioni e scuole, giornalisti e artisti, cittadine e cittadini. Si trovano tutte sul sito iomichiamogiovannitizian.org. Sono un elenco aperto e, come sempre, chiunque può contribuire. Non sono certo la soluzione a tutti i problemi. Nessuno è autosufficiente. Sono però una modalità concreta per agire antimafia. E fare – anche grazie all’8 marzo lanciato dal Quotidiano – una discussione vera (e non interessata) sul futuro della Calabria. Sul futuro di questo Paese in mezzo alla crisi.

(Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria il 12 febbraio 2012 con il titolo “Di fronte a loro siamo tutti colpevoli”)

Mafie, Veltroni: “A Roma un soggetto nuovo”

Walter Veltroni è stato sindaco di Roma e oggi fa parte della commissione parlamentare Antimafia. Il suo, insomma, è un punto di osservazione privilegiato sulla Capitale. Parla di «infiltrazione di criminalità organizzata, della camorra e della ‘ndrangheta, particolarmente efferata e violenta» e aggiunge che «Roma e il litorale Pontino sono investite probabilmente dalla nascita di un soggetto nuovo».

Onorevole Veltroni, che cosa sta succedendo?

Roma è una città che purtroppo si sta ritrovando a vivere un incubo ad occhi aperti. Una Capitale in cui la destra ha investito sulla paura per vincere le elezioni e in cui si è voluto spezzare la coesione sociale tra le persone. Una situazione che tanto più lascia atterriti i nostri cittadini quanto più nei mesi della campagna elettorale dell’2008 furono ingannati sulla risposta che la amministrazione Alemanno voleva dare: il mito fasullo dell’ordine e disciplina. Oggi la situazione è insostenibile e la città è impoverita socialmente ed economicamente: i reati sono in aumento e toccano tutte le fasce sociali e i quartieri, senza distinzioni.

Dal punto di vista investigativo la sensazione è che ci sia un ritardo. Per un problema di uomini e mezzi. E forse perché si privilegia l’impiego delle risorse per l’ordine pubblico e perché manca un’analisi di sistema. Che ne pensa?

Il problema della carenza di personale e strutture c’è sempre stato ma nonostante questo l’impegno delle forze dell’ordine e della polizia amministrativa è stato sempre altissimo e capace anche di rimediare a questo: il nodo qui è di altro tipo visto anche che di fondi con i patti per la sicurezza ne sono stati messi in campo diversi. In primis esiste un tema politico di sottovalutazione del problema e di errata analisi: la repressione come la intende la destra è una misura superata e non più adeguata visto che la vera sicurezza oggi è quella basata sull’abbattimento dei fattori di rischio potenziale e sulla prevenzione a tutti i livelli e per tutti le tipologie di reato: dalla rapina alla criminalità organizzata. E poi non dimentichiamo la tendenza di questi anni da parte dell’amministrazione a negare il problema, facendo finta che non fosse mai esistito.

Che rapporti esistono tra l’imprenditoria, il mondo delle professioni, le banche e la criminalità organizzata?

La cronaca di questi mesi sta confermando anche a tanti “scettici” quello che da tempo stiamo dicendo in commissione antimafia: Roma è stata negli ultimi anni attraversata da una forte penetrazione mafiosa che coinvolge il tessuto economico ed imprenditoriale della nostra città trasformata dalla crisi in una gigantesca torta da spartire tra i clan adoperando la macchina del riciclaggio.

(nuovo Paese Sera – Ottobre 2011 – Intervista contenuta nell’inchiesta Capitale in nero)

 

Un’estetica dell’antimafia

Per troppo tempo il movimento antimafia ha pensato che fosse sufficiente il contenuto: se una storia è forte – era il senso di un ragionamento sottinteso – arriva comunque a destinazione. La cultura main stream dal canto suo ha narrato la storia di gangster e assassini e la rappresentazione della mafia ha fatto un formidabile percorso: basti pensare a film come “Goodfellas” che sono parte della storia del cinema. La conseguenza è che esiste un immaginario – anche perversamente affascinante – sul crimine e che fatica ad affermarsi uno su chi il crimine lo combatte. Che c’è un mercato culturale legato ai carnefici e – quasi mai – alle vittime. Circostanze non proprio irrilevanti. Perché, dopo le serie “il Capo dei capi” o “Romanzo criminale”, può accadere che Riina o il Libano vengano presi a modello e imitati dai ragazzi. Ma a volte a subire il fascino dello schermo non sono solo i più piccoli. Può succedere anche che un boss come Walter Schiavone per la sua villa a Casal di Principe decida di copiare “Scarface”. Questi fatti suscitano polemiche e discussioni accese: sulla rappresentazione della realtà, i diritti e i doveri degli artisti, l’opportunità che certe opere circolino tra i giovani. Questioni (“Può esistere un’estetica dell’antimafia?”) su cui nei giorni scorsi ha invitato a riflettere un istituto di cultura straniero (ma quelli italiani?): il Goethe Institut. Un tema controverso, scivoloso, su cui – senza pretese di verità – vale la pena discutere: intanto si deve dire “no” a ogni censura e si deve avere rispetto – e cura – per il lavoro di artisti e creativi. Che significa non legittimare chi dice che “la Piovra” o “Gomorra” rovinano l’immagine dell’Italia e contrastare l’idea che è meglio non avere le opere se c’è il rischio che siano diseducative. Basti dire che il cinema sarebbe più povero senza “il Padrino”.

La partita (su cui sfidare artisti e produzioni) è invece quella di raccontare nuove storie, e di farlo bene. Di costruire un immaginario antimafie, dei diritti sociali e civili in cui si può riconoscere gran parte del Paese. Questo significa che la battaglia non è sulla sottrazione (meno film sui killer), ma sulla proliferazione di progetti culturali (più pellicole sulle vittime), non si conduce sul marketing e le mode ma sulla qualità (offrendo opportunità agli autori capaci, oltre che sensibili). Non è sufficiente insomma raccontare: è importante come si racconta. Altre due convinzioni vanno sfatate. La prima riguarda il rigore del racconto. “I cento passi” può aiutare a chiarire: è vero, la storia di Peppino Impastato contiene imprecisioni e il film si conclude con una bugia (ai funerali non c’erano le folle) eppure si tratta di un buon film che ha reso Impastato parte di un immaginario largo e condiviso. La seconda convinzione riguarda la violenza: la serie “I Soprano” mostra boss e killer spietati e senza scrupoli, affascinanti e persino simpatici. Eppure con straordinaria efficacia racconta anche di mafiosi con gli attacchi di panico o che vivono nascondendo la propria omosessualità, dipendenza dall’eroina o persino i problemi di erezione. Di questo bisogna parlare. Di modelli di racconto e di storie che meritano di essere conosciute, di autori e giornalisti pigri e poco curiosi, di scrittori famosi che si accontentato della retorica, di un sistema produttivo che non rischia. L’arte e la creatività devono avere invece l’ambizione (e l’opportunità) di raccontare la realtà, di offrire nuovi punti di vista, di metterci in discussione. Un tentativo, a fatica, è in corso: nel cinema (con i lavori su Falcone, Borsellino e Livatino, su don Puglisi e Siani, con “Gomorra” di Garrone e “Placido Rizzotto” di Scimeca fino all’ultimo, e bellissimo, “Tatanka” di Gagliardi), a teatro (con “U tingiutu” di Scena verticale o il lavoro di Emma Dante), nella musica (quarant’anni fa il concept album – censurato – “Terra in bocca” dei Giganti, oggi alcuni episodi come “L’appello” di Silvestri o il tour dei Modena City Ramblers), nei musei (il Cam di Casoria o le “fiumare d’arte” siciliane di Antonio Presti), nella satira (dal siciliano Giampiero Caldarella al lombardo Giulio Cavalli). Molte cose importanti restano fuori da questo parziale e arbitrario elenco. Ma questi nomi bastano a dimostrare che quando l’arte ha raccontato è aumentata la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini, è nato un immaginario. Non è abbastanza, ma esiste.

Un capitolo a parte merita la Calabria, patria della più potente delle mafie e luogo quasi del tutto privo di rappresentazione e autorappresentazione. Allora forse non è un caso che i libri recenti più riusciti nel racconto di quella terra siano di un napoletano (Francesco Cascini con il suo “Storia di un giudice”) e di una reggina trapiantata al nord (Rosella Postorino con il suo bellissimo “L’estate che perdemmo Dio”) o che non esista una cinematografia sulla Calabria (ha fallito persino Comencini). Qualcosa però si muove, di importante: Peppe Voltarelli, Massimo Barilla, Ernesto Orrico, Luca Scornaienchi, Nino Racco, Kalafro, Popucià sono solo alcuni dei tanti interpreti dell’Onda calabra anti-‘ndrangheta. Qui si inserisce l’attività dell’associazione daSud che questo mondo cerca di tenerlo in rete. E che con la cultura e i nuovi linguaggi creativi ricostruisce la memoria negata e ragiona attorno a una nuova identità meridionale. Con il libro “Dimenticati” abbiamo raccontato più di 250 storie di innocenti uccisi, sono nati documentari e un archivio multimediale, murales e lavori fotografici, trasmissioni radiofoniche e campagne mediatiche come “Le mafie ci uniscono” sull’unità d’Italia. Abbiamo investito sul teatro e la musica, offrendo storie e palcoscenici a un movimento forte (e non abbastanza conosciuto) che ha riscoperto il suo territorio, le sue storie, il suo dialetto. A tutto il Sud è dedicato il nostro lavoro sui fumetti: un nuovo linguaggio contro i clan. La strada è ancora lunga, ma è tracciata. Può esistere un’estetica dell’antimafia?, chiede il Goethe. Deve.

(il manifesto 12 maggio 2011)

Le mafie ci uniscono

Subito una precisazione, necessaria: in questo ragionamento non c’è nessuna grottesca tentazione scissionista o nostalgia neoborbonica. Non c’è nessuna voglia di agitare la retorica tricolore – nazionalista o praticata in sella a un cavallo bianco – nessun ammiccamento ai festeggiamenti di un Paese ingessato. Questo è il ragionamento collettivo – aperto, di certo parziale – di chi pensa che, in occasione del 150° anniversario dell’Unità del Paese, bisogna parlare dell’Italia vera, di quella che esiste e resiste. Da qui (tutti i materiali sono da domani su dasud.it) nasce la campagna “Le mafie ci uniscono”, uniscono nord e sud, le nostre identità. Parla con molti linguaggi all’Italia, alla politica, ai movimenti. Per dire che fingere che le mafie non ci siano, non serve. Chiede la partecipazione di tanti, per riempire noi gli spazi che altrimenti finiscono nelle mani sporche degli altri. Per costruire, finalmente, ragioni profonde per stare insieme, le basi di un Paese fondato sui diritti e le libertà. Un paese antimafie, senza mafie.

Per farlo, occorre partire da quello che siamo. Senza sconti, consapevoli che la nostra identità di italiani oggi è debole, sfocata, frutto di un processo storico che ha lasciato ferite mai rimarginate a cui s’è aggiunto un trentennio di neoliberismo che ha stracciato i diritti. Oggi siamo un’Italia rotta, avvilita, guasta. Siamo un Paese precario, senza un’idea di sé, che umilia le differenze, costringe le libertà, offende la cultura, si nutre delle sue contraddizioni, un Paese in cui crescono vertiginosamente le disuguaglianze tra le fasce sociali, tra nord e sud. E siamo il Paese delle mafie: sin dal 1861, quando hanno iniziato la marcia inarrestabile che le ha portate ad essere presenti in tutte le regioni e a diventare soggetti glocal, capaci di unire dominio territoriale e affari mondiali. Così oggi le mafie non sono più un’emergenza meridionale, ma un elemento strutturale, seppure patologico, della modernità, del sistema economico e di potere del XXI secolo. Le mafie controllano il Paese non solo per la forza militare. Ma perché fanno politica ed economia, hanno una sconfinata liquidità e condizionano il mercato del lavoro, stanno nella massoneria e collaborano con i servizi segreti, infiltrano le istituzioni e ci trattano, inquinano le università. Per dirla in altri termini, stannonel potere, hanno e gestiscono consenso, contengono il concetto di borghesia mafiosa. Se così non fosse, semplicemente non sarebbero mafia.

Se vogliamo attraversare degnamente il 17 marzo, quindi, dobbiamo fare i conti con tutto questo, ragionare in chiaroscuro dell’esercizio del potere, del modello economico e della crisi, portare le mafie e l’antimafia al centro della discussione nella politica e nei movimenti sociali. E se vogliamo davvero ragionare di memoria, è bene ripartire da chi si è battuto per la libertà, per i diritti sociali e civili oggi in pericolo, dalle vittime innocenti delle mafie. Di questa Italia vogliamo parlare, e di quella capace di accogliere lo straniero, rispettare le differenze di genere, mettersi in discussione. Non è semplice, certo. Serve un ribaltamento culturale, ripensare il modo di concepire mafia e antimafia, nord e sud. Bisogna eliminare il termine legalità e ragionare di giustizia, uscire dall’emergenza e puntare sulle logiche di sistema, rigettare l’idea degli eroi e promuovere pratiche comuni, sbugiardare le amnesie e le ambiguità di Stato che stanno a destra e sinistra. E ancora, comprendere che antimafia significa difendere il territorio dalle speculazioni, affermare il diritto ai servizi pubblici, pretendere una buona informazione, combattere la precarietà sociale e generazionale, sfuggire dal ricatto occupazionale, contrastare i fatti di Rosarno. Non capirlo, significa negare l’essenza e l’esistenza stessa delle cosche, sostenere che con i clan si deve convivere, o considerare pezzi d’Italia persi per sempre. Significa usare gli schemi di chi ha fallito.

Attorno a noi abbiamo una crisi epocale gestita da una classe dirigente delegittimata dai fatti. Bisogna rispondere con l’impegno collettivo e la partecipazione, allargando il fronte delle alleanze, della battaglia politica. Così declineremo anche lo sciopero generale. Con la rivendicazione di diritti, di un’identità. Chi si tira fuori, si sottrae alla responsabilità di pensare al futuro. Questa è la battaglia antimafie. Che si vince, se ciascuno fa la sua parte. Con rigore e curiosità. Senza indulgenze, equivoci, compromessi sui principi, senza predicare una cosa a Roma per rinnegarla in Calabria. Vale per tutti, fino in fondo.

(pubblicato su “Il manifesto” del 15 marzo 2011)

Presentazione “Dimenticati” a Tor Vergata

Prima presentazione all’Università per il libro “Dimenticati”. Saremo il 26 gennaio a Tor Vergata, a Roma, grazie all’associazione Mediapolitika.

Ecco il comunicato stampa.
ROMA, 26 GENNAIO: A TOR VERGATA L’INCONTRO
“CONTROMAFIE – LEGALITA’ E INFORMAZIONE IN TERRE DI MAFIA”

L’associazione culturale Mediapolitica e l’associazione daSud, in collaborazione con il coordinamento Libera Roma organizzano l’incontro: “Contromafie – Legalità e libera informazione in terre di mafia”.
L’appuntamento è per mercoledì 26 gennaio 2011, alle 10, presso l’aula Moscati della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. L’incontro si aprirà con la presentazione del Rapporto 2008-2010 dell’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione della Fnsi e dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, a cura di Alberto Spampinato. Seguirà il ricordo di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso il cinque settembre scorso, con la testimonianza di Dario Vassallo.
Infine, proiezione dei booktrailer e colloquio con gli autori dei libri: Dimenticati, di Danilo Chirico e Alessio Magro; Zagare e sangue. L’informazione è Cosa Nostra, di Vincenzo Arena. Sono stati invitati gli studenti e i docenti dei corsi di laurea triennale in Scienze della Comunicazione e magistrale in Informazione e Sistemi editoriali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata e gli studenti delle scuole superiori dell’VIII e X Municipio di Roma.

Contatti:
www.mediapolitika.com/contromafietorvergata
email: redazione.mediapolitika@gmail.com
evento Facebook: Contromafie – Legalità e libera informazione in terre di mafia