Bombe e potere

Caro direttore*

nei giorni scorsi siamo stati insieme a tanti cittadini sotto la casa del procuratore generale Salvatore Di Landro per esprimergli la nostra non rituale solidarietà. Oggi vogliamo approfittare delle pagine del Suo giornale per invitare lui e tutti i magistrati – sono molti altri, com’è noto, quelli minacciati – che lavorano nel nostro territorio ad andare avanti con la determinazione e l’impegno sin qui dimostrati.
Le intimidazioni ai magistrati, ai giornalisti, ai cittadini sono un attacco alla libertà e alla democrazia in questa città e in questo Paese. Riguardano tutti. E tutti siamo chiamati a fare la nostra parte. È partendo da questa consapevolezza che bisogna avviare un ragionamento che dovrà portare – non è per nulla scontato – ad assumere la battaglia contro la ‘ndrangheta come una battaglia che sia davvero senza indulgenze, senza equivoci, senza compromessi sui principi. Andando a fondo alle questioni, ai torpori colpevoli, alle compromissioni. Partendo da due presupposti: il primo è che la ‘ndrangheta è tale per la sua capacità di stare nel Potere, il secondo è che fare davvero anti-‘ndrangheta significa banalmente occuparsi della vita delle persone, dei diritti, del proprio territorio, del proprio futuro. Tutto è legato da un filo che non si può e non si deve spezzare.
Ecco perché non possiamo non tenere presente i tempi in cui viviamo. Ecco perché occorre guardare con attenzione alla crisi di governo e, soprattutto, a quella al comune di Reggio Calabria nella quale si sta consumando uno scontro tra accuse pesanti e colpi bassi, parole irripetibili e insinuazioni violente persino nei documenti ufficiali. Nessuna parola sulla politica, nemmeno un chiarimento su qual è il vero oggetto del contendere, quali sono i poteri – da tutti evocati e da nessuno denunciati – che si agitano dentro e fuori Palazzo San Giorgio e che mettono a rischio Reggio Calabria. In questo contesto,  dove si sprecano le lettere minatorie, è incomprensibile l’atteggiamento silente e confuso di un centrosinistra allo sbando.
La manifestazione.
Se guardiamo a questa situazione nel suo complesso e se – come noi pensiamo – antimafia vuol dire partecipazione, impegno, memoria, creatività allora la proposta di una grande manifestazione nazionale a Reggio Calabria non può che essere accolta con favore, nella speranza che sia l’inizio di un nuovo processo di consapevolezza dei reggini e dei calabresi e di una nuova affermazione di protagonismo del nostro territorio nei confronti del Paese. C’è un rischio però, grave. Denunciato proprio dalle pagine del Quotidiano da Angela Napoli: «Alle iniziative e all’attuazione delle stesse potrebbero partecipare e aderire persone che magari potrebbero avere delle responsabilità rispetto a tutto quello che sta accadendo a Reggio Calabria». Anche tra le persone che hanno manifestato la solidarietà a Di Landro ci sono persone e personaggi tutt’altro che al di sopra di ogni sospetto.
Ecco perché allora è giusto sottoscrivere l’appello “Quello che non ho” della Fondazione Giuseppe Di Vittorio per sostenere le richieste dei magistrati reggini al governo. Ma ecco perché occorre sciogliere dubbi e ambiguità se vogliamo ragionare di una vera manifestazione anti-‘ndrangheta. Se siamo convinti e consapevoli che la ‘ndrangheta sta nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, se – come sostengono i magistrati – siamo di fronte a pezzi di Stato che stanno destabilizzando la nostra democrazia, dobbiamo avere la capacità di leggere le dinamiche in chiaroscuro facendoci guidare non soltanto dalle sentenze della magistratura, ma anche dal buonsenso e dal recupero di un’etica pubblica oggi più che mai indispensabile. Per questa ragione, alla politica e ai rappresentanti istituzionali, alle forze sociali e ai cittadini che vogliono scendere in piazza a manifestare contro le cosche bisogna chiedere di pronunciare parole chiare e nette sul lavoro nero e il precariato – che sono la vera grande questione calabrese – sul ricatto occupazionale e le “mediazioni” politiche per avere uno straccio di lavoro. E poi parole altrettanto chiare e nette sullo sfruttamento dei lavoratori migranti, sulle infiltrazioni negli appalti pubblici, sulle strategie (governo e regione prima di tutto) che si metteranno in atto nella gestione della sciagurata opera del ponte sullo Stretto che altro non è che un rubinetto da cui escono soldi a palate. C’è assoluto bisogno di ritrovare parole comuni, per riscrivere i contorni di una nuova e originale identità meridionale, di riappropriarsi della nostra memoria e di un racconto di noi stessi. E forse questa volta si riuscirà ad affrontare in maniera efficace una situazione che purtroppo non è nuova.
Le intimidazioni e le elezioni
Non può essere un caso che le scadenze elettorali e le crisi politiche nel nostro territorio vengano segnate sempre da bombe, minacce, lettere minatorie. Dal 2004 a oggi ci sono stati gli spari contro Saverio Zavettieri, poi le pallottole mandate ad Loiero, poi l’omicidio Fortugno, poi le finte bombe al comune di Reggio, poi – prima delle regionali – la bomba alla procura generale. L’ultimo atto riguarda Salvatore Di Landro, proprio mentre si consuma una drammatica crisi al comune e ci si prepara a fare delicatissime elezioni provinciali e comunali.
Se davvero i partiti colgono la gravità di questa fase, applichino almeno stavolta – non l’hanno mai fatto – criteri trasparenti e inequivocabili nella selezione dei candidati (abbiamo ancora davanti agli occhi lo squallido spettacolo offerto nella compilazione delle liste alle elezioni regionali e attendiamo, ora più che mai, il resoconto dei lavori della commissione parlamentare antimafia). Denuncino compromissioni e intromissioni, si facciano guardare al proprio interno. Ai cittadini spetterà di fare il resto: votino secondo coscienza. Davvero.
Ai magistrati reggini che in questi mesi hanno portato a termine importantissime inchieste chiediamo una compattezza interna oggi quanto mai necessaria e di chiarire alla città qual è la situazione, dove viviamo, dove stiamo andando, per non concedere alibi e scuse a nessuno. Reagire è urgente: bisogna mettersi in gioco «senza aspettare che il percorso di strategia della tensione che è in atto si compia. Senza aspettare – ha denunciato il procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo, anche lui minacciato – che uno di noi venga ammazzato». Così non avremo fatto un corteo rituale.

* (Matteo Cosenza, direttore de Il Quotidiano della Calabria)

Appunti per iniziare – Cinque anni

Cinque anni fa. L’idea di raccontare la storia di Peppe Valarioti è di cinque anni fa, anche la prima intervista è di cinque anni  fa. Un  giorno di  fine estate del  2005  siamo  stati  a Vibo Valentia per incontrare Peppino Lavorato, mitico sindaco di Rosarno  ed  ex  parlamentare  antimafia.  Non  lo  conoscevamo  di persona. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la storia di Peppe Valarioti, ucciso dalla  ‘ndrangheta a Rosarno a trent’anni. Gli è morto tra le braccia Peppe. Ascoltando le sue parole ci siamo subito  resi  conto  di  quanto  fosse  doloroso  quel  ricordo,  e  di quanto tuttavia  lo sentisse necessario e urgente. Una conversazione decisiva: così  la nostra  idea è diventata  l’inizio di un percorso arrivato fino a oggi.

Peppe Valarioti meritava di essere raccontato. Perché tutte le vittime innocenti della ‘ndrangheta hanno diritto al ricordo e alla memoria. E anche perché Peppe Valarioti è un personaggio straordinario. Davvero. È un precario che vive la Calabria degli anni Settanta, la Calabria dove la ‘ndrangheta spadroneggia e il  lavoro  scarseggia,  le  rivolte  dei  braccianti  sono  un  ricordo sbiadito e  la rivoluzione dell’Italia degli anni Settanta  la puoi osservare solo da lontano. Dove il futuro è un alibi o un’ipotesi inconsistente.

Peppe è un professore, un intellettuale che come Pier Paolo Pasolini sa leggere la speranza negli sguardi dei bambini e dei  ragazzi del  suo paese anche quando  la  speranza non c’è, che sa guardare avanti di vent’anni, che sa dire cose scomode. È anche un uomo che ama il rapporto diretto con la sua terra, che questo  significhi  lavorare  i campi di  famiglia o difendere il suo paese dalla speculazione edilizia. Sta con  il movimento dei disoccupati, crede che l’arte e la cultura siano strumenti di emancipazione collettiva. Le promuove e  le pratica. Sente  la politica come un bisogno, come un mezzo per il cambiamento delle condizioni di vita delle persone. La sceglie quando questo significa puntare  sulle  risorse del  territorio mentre Giulio Andreotti promette cattedrali nel deserto prendendo il caffè con i boss. Entra nel Pci quando vuol dire schierarsi senza ambiguità contro la ‘ndrangheta e i comunisti sono nel mirino dei clan.

La storia di Peppe Valarioti è la storia di un’epoca, gli anni Settanta in Calabria, dal sapore unico. I protagonisti sono i disoccupati che si organizzano e chiedono un lavoro e quelli che fanno nascere il movimento antimafia, i politici onesti e quelli corrotti,  sono  gli  ‘ndranghetisti  che  fanno  le  guerre  e  quelli che  diventano  imprenditori,  politici  e massoni,  sono  i morti ammazzati che non hanno giustizia. Una storia, tante storie di trent’anni fa. Che contengono ogni ingrediente della Calabria, dell’Italia, di oggi.

Cinque anni  fa. Ragionavamo di noi, della nostra  identità di meridionali, di calabresi. Avvertivamo forte un senso di inadeguatezza. Che pensavamo dovesse essere collettivo e che sentivamo innanzitutto come personale, privato. Siamo senza memoria, ci siamo detti. Non avevamo altra scelta che quella di cominciare a scoprire, ricordare, e raccontare. Abbiamo girato in lungo e in largo la Calabria. Abbiamo incontrato  tanta  gente  che  se  ne  fotte. Gente  che  ha  perso per strada la parte migliore di sé, che ha paura, s’è abituata a confondere il diritto con il favore, che coltiva il brutto e si fa  imporre dove mettere  la  croce,  che  soffre e poi dimentica. Abbiamo  incontrato  incapaci e corrotti, «pavidi travestiti da  intellettuali e carnefici mascherati da censori», venduti e persino svenduti, schiavi, barbe finte e padrini. C’è un vasto campionario, che tutti conoscono.

Siamo andati avanti. Per fortuna. Incrociando molte altre persone eccezionali, nuove storie bellissime. A tutte abbiamo prestato attenzione, cura. È stato un viaggio difficile, pieno di curve e di strade interrotte. Eppure straordinario ed entusiasmante. Un  viaggio  incompleto,  che non dovrebbe avere mai fine come certe tournée dei folksinger americani. Siamo stati dentro la memoria dei calabresi. Con pazienza e rigore abbiamo provato a tenerne insieme i pezzi, a recuperarne sguardi e suoni, odori e colori. Testardamente abbiamo cercato e trovato la meglio gioventù della Calabria, di ieri e di oggi. Forse anche di domani. Abbiamo incontrato chi ha combattuto per i diritti, sociali e civili. Ascoltato dalle voci dei familiari, degli amici, dei compagni il racconto delle storie di chi è stato ammazzato dalla ‘ndrangheta e anche la vita entusiasmante e complicata di chi contro i boss ha avuto la meglio. Tante persone oneste, semplici, perbene. Delle quali ci sentiamo orgogliosi. Abbiamo parlato con i vincitori e i vinti. Tutti dalla stessa parte, però.
Con ostinata partigianeria ci siamo messi al servizio di questo mondo. Travolgente e fragile. Per raccontare, e raccontare. E contribuire alla costruzione di una nuova identità meridionale. Era nata  l’associazione antimafie daSud. Un’associazione che cerca di ripensare il modo conosciuto sinora di concepire mafia e antimafia, nord e sud, potere e critica al potere. Che pensa che fare antimafia significhi partecipazione, creatività, rivendicazione di diritti. Che sperimenta modi di essere e praticare Sud.

Dopo cinque anni di viaggio nella memoria di una Calabria che si ostina a dimenticare, arriva finalmente il libro dedicato a Peppe Valarioti.  Il caso vuole che mentre  lo scriviamo scoppi  la  rivolta di Rosarno. Ci  siamo  spesi con grande passione e impegno, spesso in amara solitudine, per riattraversare quelle strade. Ci siamo spesi al fianco dei lavoratori migranti sfruttati nella Piana che fu terra di grandi lotte e conquiste. Farlo è stato un po’ come fare rivivere Peppe Valarioti. Ci sarebbe stato anche lui, senza dubbio, in questa battaglia. È proprio vero: le idee non possono morire, basta voler raccogliere il testimone. “Il  caso  Valarioti”  gode  di  numerosi  privilegi.  Contributi preziosi, da leggere e conservare.

Chi nella vita ha deciso di fare il giornalista oggi ha pochi, pochissimi punti di  riferimento. Uno  si chiama Giorgio Bocca, averlo  in questo  libro è un onore. Gli abbiamo chiesto di raccontarci come un grande inviato del nord ha conosciuto il sud. S’è accostato a questo progetto con curiosità, umiltà e rigore. Ennesima lezione di giornalismo.
Abbiamo chiesto un’analisi sullo stato del movimento antimafia a Enrico Fontana. Enrico è un giornalista, ha fatto politica ma è un rappresentante della società civile, è l’inventore della parola “ecomafia” e conosce come pochi le associazioni. Offre un punto di vista molto interessante, un ottimo strumento di lavoro.

Chi vorrà leggere questo libro, potrà leggere anche le parole di Giuseppe Smorto, giornalista di razza e condirettore di Repubblica.it. È un reggino, Giuseppe. Con lui abbiamo provato a capire come (secondo noi male) i media raccontano il sud. Ci ha risposto con franchezza, coraggio e lucidità. La conclusione alla quale siamo arrivati ― e che vi invitiamo a leggere ― fa un po’ paura.

La  prefazione  è  affidata  a  Filippo  Veltri,  caporedattore dell’Ansa Calabria, per varie ragioni: perché ha seguito da vicino come giornalista i fatti, perché è stato testimone privilegiato delle principali vicende calabresi degli ultimi trent’anni e perché non ha un’idea della memoria e dell’informazione come proprietà privata. È un giornalista bravo, Filippo. E generoso.

È impareggiabile il contributo offerto a questo libro da Carmela Ferro,  la compagna di Peppe Valarioti. Le parole scritte per questo libro sono dirompenti. Per verità, passione, amore. Dobbiamo moltissimo  a  Peppino  Lavorato,  per  questo  libro e per l’esempio. Di politico lungimirante, di amministratore coraggioso,  di  cittadino  onesto,  di  uomo  appassionato. A  lui, amico sincero, abbiamo chiesto  la postfazione e un ricordo di Peppe. Gli abbiamo fatto anche fare la promessa che scriverà la storia della sua vita. Che tutti devono conoscere. Il caso Valarioti chiude un ciclo. Di tutti noi, di ciascuno di noi. Se ne aprirà, speriamo, un altro. Intanto, buona lettura.

p.s.
In  un’antologia  di  Bucoliche  e Georgiche  Peppe Valarioti aveva  annotato  una  frase molto  significativa:  “La  vita  è  una guerra totale; pochi tentano di mettere la pace ma sono soffocati dalla mischia”. L’ha  scoperta Vanessa, una  sua pronipote che ama stare tra i libri dello zio Peppe. Ecco, l’idea è che nel nostro Mezzogiorno si trovi la forza di non restare soffocati.

(introduzione al libro “Il caso Valarioti”)

“C’è chi dice no” – Dossier racket

Nel 2009 non era la prima volta che un calabrese si opponeva al pizzo e denunciava i suoi estortori. Ha sbagliato il Corriere della Sera nel gennaio dell’anno scorso a titolare così (“Calabria, la prima rivolta contro chi impone il pizzo”) un interessante pezzo – che infatti ripubblichiamo – sulla testimonianza importantissima che l’imprenditore Rocco Mangiardi tenne in tribunale contro i suoi aguzzini a Lamezia Terme. Sono tante le storie di cittadini che non hanno pagato la mazzetta e denunciato gli estortori. Rocco Gatto lo fece negli anni 70, Cecè Grasso negli anni 80, Nicodemo Panetta e Nicodemo Raschillà negli anni 90. E sono solo alcuni dei nomi di martiri calabresi del racket o delle persone che hanno resistito a fronte di problemi gravissimi.

Non è per inutile pignoleria allora che facciamo questa precisazione, ma per la profonda convinzione che – se vogliamo avere una qualche speranza di sconfiggere la ‘ndrangheta – è indispensabile conoscere il nostro passato, individuare i punti di forza e capire dove abbiamo sbagliato.
E se un buco esiste nella coscienza civile calabrese riguarda proprio il rapporto con la propria storia, la capacità di ricordare e reinterpretare la propria parte migliore. Questa amnesia individuale e collettiva si traduce spesso in un’informazione sbiadita e fuori fuoco, in una narrazione inefficace e incompleta di se stessi.
Siamo perfettamente consapevoli che la Calabria oggi vive una situazione complicata, una delle più difficili della sua storia. La ‘ndrangheta aumenta ogni giorno la sua forza e prepotenza, il numero di attentati ai commercianti e agli imprenditori è spaventosamente alto, le modalità di estorsione sono sempre nuove e invadenti (alla tradizionale richiesta del pizzo si affiancano l’imposizione delle forniture e del personale, l’acquisto di quote societarie fino alla sostituzione stessa delle proprietà) e siamo lontani anni luce dal fermento della Sicilia contro i clan. Tuttavia è necessario trovare le energie per avviare un percorso di riappropriazione delle libertà più elementari in Calabria. E questo percorso non può non passare dal recupero della memoria e da un’analisi della realtà che si fondi sulla conoscenza delle informazioni.
Nel dossier “C’è chi dice no” proviamo a restituire verità sulle estorsioni in Calabria e giustizia a chi non ha pagato la mazzetta. Abbiamo messo insieme vecchie e nuove storie, articoli di giornale, fotografie e video, documenti istituzionali e di associazioni, le parole dei testimoni e le analisi degli esperti. Proviamo a costruire tassello dopo tassello un quadro del racket – e soprattutto del movimento antiracket – calabrese. Raccontiamo le storie dei martiri e quelle di chi ancora oggi resiste, pubblichiamo la storia della prima associazione antiracket (l’Acipac di Cittanova) e i rapporti di Sos impresa, le foto delle lettere di intimidazione a Bovalino e le testimonianze di nostri concittadini onesti che hanno deciso di tenere la schiena dritta e di non pagare (Gaetano Saffioti su La7, Tiberio Bentivoglio e Filippo Cogliandro intervistati da Francesca Chirico e Patrizia Riso per Stopndrangheta.it). Nel nostro archivio troverete anche i materiali della nuova campagna contro il pizzo lanciata da Libera a Reggio Calabria (il dossier viene pubblicato proprio in occasione della presentazione) e il modello Addio pizzo analizzato in una tesi di laurea, la legge sull’antiracket e l’analisi dell’avvocato Giovanna Fronte, gli allarmanti dati contenuti in un’indagine di Confindustria Calabria dai quali emerge che troppi imprenditori pagano la mazzetta e soprattutto che troppo pochi vengono assistiti dallo Stato. Lo Stato, appunto. Quello Stato sul quale i calabresi troppe volte non possono fare affidamento.

(introduzione al dossier sul racket di Stopndrangheta.it)

La meglio gioventù antimafia

Meno male che c’è Roberto Saviano, verrebbe da dire: è solo grazie al suo lavoro che la mafia finisce in prima pagina in questo strano Paese. Peccato che c’è Roberto Saviano, verrebbe da dire: raccogliere i suoi appelli o commentarne gli scritti è infatti oggi il modo più facile e diffuso per parlare di mafia e fare antimafia, per i cittadini come per la politica, l’imprenditoria, il mondo dell’informazione. Inutile dire che la responsabilità non è di chi racconta storie che meritano di essere conosciute.

Ecco perché, per provare a ragionare di mafia e antimafia, bisogna partire dalla considerazione che non c’è consapevolezza in Italia sulle mafie e la necessità di fare dell’antimafia una pratica collettiva, generale. Oggi i clan stanno nella politica (sin dentro il parlamento, abbiamo visto) e controllano l’economia, gestiscono il traffico della droga e condizionano il mercato del lavoro, intimidiscono e uccidono, stanno nei paesi sperduti del sud e nei salotti delle grandi città del nord. Le mafie riguardano tutti, concretamente. Eppure la questione è ai margini del dibattito politico, i movimenti sociali se ne occupano occasionalmente, la gente comune la considera lontana da sé.

Non è tutto nero, naturalmente. Qualcosa si muove, di interessante, di vero. Lo dimostrano le 150mila persone che un paio di settimane fa hanno sfilato con Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, a Milano, la nuova capitale della ‘ndrangheta. A questo proposito, anche da qui, va rinnovato l’appello a fare del 21 marzo la giornata nazionale antimafia. Per legge. A Libera questo Paese deve molto. Innanzitutto la battaglia per la legge sui beni confiscati, la capacità di custodire il dolore dei familiari delle vittime (in 500 lavorano con Libera), la creazione di lavoro pulito sui terreni confiscati, l’internazionalizzazione dell’antimafia, la capacità di fare dell’antimafia una battaglia popolare.

E altre sono le realtà che fanno antimafia in Italia. All’Arci si deve la nascita della Carovana antimafia (un evento itinerante annuale, oggi organizzato anche con Libera e Avviso pubblico che dal 1996, raccoglie tutti gli enti locali impegnati contro le cosche). Legambiente ha invece svelato l’esistenza delle ecomafie ottenendo anche un riconoscimento legislativo, ancora parziale, per i crimini ambientali.
Straordinario è il lavoro fatto dai ragazzi di Addio pizzo: il 29 giugno del 2004 furono capaci di invadere Palermo con adesivi con la scritta “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Uno shock positivo: oggi l’associazione è un punto di riferimento concreto contro le estorsioni, promuove gli esercizi commerciali che non pagano la mazzetta ed è riuscita a determinare la nascita a Palermo della prima associazione antiracket, molti anni dopo quelle nate a Capo d’Orlando o a Cittanova che – nei primi anni 90 – sfatarono il mito dell’imbattibilità dei clan. L’antimafia sui territori è tante altre cose ancora, da indagare e raccontare. Che sia sull’onda emotiva per un fatto eclatante (le lenzuola bianche a Palermo o i giovani scesi in piazza a Locri) o frutto di percorsi più meditati. Sono nati collettivi universitari (a Firenze c’è il forum nazionale) e interessanti premi giornalistici, nascono pizzerie sociali (a San Cipriano d’Aversa) o laboratori multimediali (a Torino), web radio e riviste, aziende agricole (a Polistena o Corleone) e festival culturali, fabbriche (a Trapani) e scuole di formazione (a Milano). Centinaia di percorsi che si uniscono a quelli nati per ricordare le vittime innocenti. E’ un mondo straordinariamente vario e vitale quello dell’antimafia: energie positive e buone pratiche. In questo contesto si inserisce l’attività dell’associazione daSud, nata cinque anni fa. Il nome esprime la provenienza delle persone che la compongono e il punto di vista attraverso il quale leggere l’Italia di oggi. Con due idee di fondo, intimamente collegate: ricostruire la memoria (condivisa dal basso e non riconciliata dall’alto) della “meglio gioventù” del Sud e ragionare attorno alla costruzione di una nuova e originale identità meridionale. Con la creatività, con la pratica politica, mettendo in rete esperienze, idee, progetti, passioni anche apparentemente lontane. Ne sono nati libri e documentari, una collana di fumetti e un archivio multimediale (Stopndrangheta.it), produzioni teatrali e campagne (e-migranti), eventi e rassegne, dossier (Arance insanguinate) e una sede romana (Spazio daSud) che valorizza le creatività meridionali e promuove i diritti sociali e civili.
Un pezzo di percorso svolto nella consapevolezza che è assolutamente necessario rimescolare i paradigmi, ripensare il modo conosciuto sinora di concepire mafia e antimafia, nord e sud, potere e critica al potere. Bisogna smettere di usare la parola (abusata) “legalità” e parlare piuttosto di “giustizia” o, come sostiene don Ciotti, “responsabilità”, uscire definitivamente dalla logica dell’emergenza per ragionare di logiche di sistema e agire con continuità, rifiutare l’idea degli eroi dell’antimafia e promuovere pratiche comuni e alla portata di tutti, rigettare il sistema della delega alle associazioni e assumere ognuno le proprie responsabilità, contrastare le amnesie di Stato e ricostruire le tessere della memoria. E ancora, lo scatto vero sarà capire che l’antimafia non è soltanto stare in un percorso “ufficiale” di antimafia. Ma contrastare i fatti di Rosarno e difendere il territorio dalle speculazioni, affermare il diritto ai servizi pubblici e denunciare i soprusi, pretendere una buona informazione e il rispetto delle regole dalla burocrazia pubblica, contrastare la precarietà sociale e rifuggire dal ricatto occupazionale. Tutto si tiene, tutto è legato da un filo che non si può spezzare. Non capirlo, significa utilizzare le categorie di chi pensa che la battaglia antimafia sia inutile, che con le cosche si deve convivere, che ci sono pezzi d’Italia da considerare persi per sempre. Significa usare gli schemi di chi ha fallito. Di fronte abbiamo scenari importanti, un’agenda stringente. L’antimafia deve guardare al Ponte sullo Stretto e all’Expo di Milano, vigilare sulle speculazioni finanziarie e rafforzare il suo ragionamento sull’uso sociale dei beni confiscati ai clan, individuare (altri) percorsi economici e contrastare la corruzione, deve saper parlare con la gente comune e deve sapersi relazionare senza subalternità con la politica imponendo le proprie priorità, creare un immaginario inedito e utilizzare linguaggi utili a farsi capire dalla gente comune e, perché no, a anche di diventare notizia. A una classe dirigente delegittimata e incapace di praticare l’antimafia (vogliamo scorrere l’elenco dei candidati e degli eletti alle regionali?), occorre rispondere con un nuovo impegno collettivo. Con la partecipazione, allargando il fronte delle alleanze e della battaglia politica. Con la rivendicazione di diritti, di un’identità. Nessuno può tirarsi fuori: la battaglia contro la mafia si vince se ciascuno fa la sua parte. Con rigore e curiosità. Senza più eroi, che poi si trasformano in alibi.

(Pubblicato sullo speciale almanacco del settimanale Carta. Scritto il 25 marzo 2010, 2-10 aprile 2010)

Da Roma a Rosarno. E ritorno

Rosarno stravolge le certezze sul Sud e i migranti. Rappresenta il fallimento. E tuttavia ci permette di ripartire.
La rete nata a Roma dopo i fatti di Rosarno è attraversata da questa esigenza, che se ne discuta nelle assemblee nello Spazio daSud o che si organizzino momenti pubblici. Fa un’analisi rigorosa e cerca soluzioni concrete. A partire dai cento migranti arrivati a Roma che ieri insieme a noi hanno rivendicato pubblicamente i loro diritti. Sono i ragazzi che hanno reagito al razzismo e alla ‘ndrangheta. Che sono stati sfruttati e deportati dallo Stato. Con loro stiamo lavorando all’assemblea cittadina e poi al primo marzo, una data importante, persino oltre le intenzioni degli organizzatori o il fatto che il sindacato non convocherà lo sciopero.
Parallelamente, continuiamo a guardare alla Calabria, il vero luogo della vertenza. Con una consapevolezza per noi fondativa: non tutto il positivo è dentro di noi o usa le nostre parole. Come, seppur con limiti, ha dimostrato il No Mafia day a Rosarno. Come dimostrano alcune esperienze politiche, sindacali, imprenditoriali, solidali e associative, il lavoro di don Pino Demasi nella Piana di Gioia Tauro, le iniziative in cantiere per i prossimi mesi.
Ripartiamo da qui, allora. Mettendo in rete esperienze, idee, passioni. Con il portale Equalway, Banca Etica e Carta lavoriamo alla costruzione di una nuova filiera delle arance calabresi: nessuno spazio per chi paga la mazzetta o sfrutta il lavoro nero. Con l’archivio multimediale Stopndrangheta.it abbiamo realizzato un dossier su Rosarno. E’ sul web, avrà una versione cartacea. Per ripartire dai fatti, dalla memoria dei fatti. Lo presenteremo a Reggio Calabria, città di contraddizioni sociali e intrecci perversi. Da spezzare. Lo faremo con associazioni, forze politiche e sindacali, artisti e cittadini. Lo porteremo nelle scuole e anche a Rosarno, per riattraversare un territorio oggi off limits: la prima zona rossa permanente dopo Reggio ‘70. Lo metteremo a disposizione di chi vuole, per riannodare i fili di un percorso di ricostruzione. Che passa da molti luoghi. Anche da Roma, nel nostro Spazio, dove dal 25 al 28 febbraio ragioneremo di Sud e crisi interrogando le voci critiche. Alla ricerca di nuovi linguaggi e percorsi a dispetto di malintese conoscenze del mondo migrante, del Sud, della Calabria. Con questo bagaglio lavoriamo a un’assemblea (il 3 e 4 marzo) all’Unical, insieme a professori e studenti e molti altri (Resecol, Sem, A Sud) per parlare della dorsale della solidarietà, di mafie e di una nuova questione meridionale.
C’è bisogno di rimescolare i paradigmi e riportare la Calabria in Calabria, Roma a Rosarno. I viaggi di sola andata non hanno senso. Serve un nuovo impegno collettivo. Sono tante le questioni in campo, lontane e intimamente collegate: la bomba di Reggio e le mille minacce delle cosche, il mercato del lavoro bloccato, i reportage dei giornali pervicacemente senza notizie, i fatti di Rosarno e la gestione dei fatti di Rosarno. Fino alla costruzione del Ponte sullo Stretto alle porte.
C’è un caso Calabria. Persino il governo – seppure in modo maldestro – se n’è accorto. Occorre una mobilitazione delle mobilitazioni, per ragionare di Rosarno e ‘ndrangheta, lavoro nero e malapolitica. Costruita su parole d’ordine chiare e non equivocabili. Alla classe dirigente senza credibilità si deve rispondere con la partecipazione, la rivendicazione di diritti, di una identità. Il contrario del rinvio a tempi migliori o dei nuovismi di maniera. Bisogna aprire una discussione sul senso di essere e praticare Sud. E costruire un grande momento di partecipazione popolare. Insieme ai tanti calabresi e italiani che vogliono farsi carico di un’emergenza democratica, di restituire verità e giustizia a un territorio, di dare un’opportunità a chi si mette in gioco e non sta chiuso nel proprio spazio. Chi non ci sarà, avrà la responsabilità di non esserci stato. Perché la Calabria non è persa, ma ci siamo vicini.

(pubblicato su Il manifesto)