1980-2010, fatti della storia d’Italia (che parlano all’oggi) / 4

Copertina - Le carte in regola

E’ il giorno dell’epifania quando viene ammazzato Piersanti Mattarella, il democristiano presidente della Regione Sicilia. Un omicidio grave, gravissimo. Che sconvolge la vita dell’isola e parla al Paese intero.

Piersanti Mattarella è un big, figlio di un big. «È figlio di Bernardo – ricorda Pierluigi Basile, autore del libro “Le carte in regola” (pubblicato dal centro studi Pio La Torre) – l’uomo di potere che ha costruito la Dc nell’isola».

«Essere un Mattarella lo svantaggiava – sostiene Basile – dentro il partito e all’esterno, dove il Pci lo guardava con pregiudizio». Fa una carriera fulminea Mattarella: nel 1967 viene eletto deputato regionale, nella seconda metà degli anni 70 «si rende protagonista di una nuova stagione di battaglie meridionaliste». Divenuto assessore al Bilancio, poi, «inizia un percorso di trasparenza amministrativa, quella che lui chiama “la politica delle carte in regola”. Prova cioè a rompere i lacci e i laccioli del potere politico peggiore e della mafia, a pulire i luoghi del clientelismo». Supera le diffidenze, avvia il dialogo con il Pci (del segretario regionale Achille Occhetto) e fa crescere una generazione di giovani tra cui emerge Leoluca Orlando. Il processo trova sbocco nel ‘78 quando diventa presidente della Regione a capo di un governo che ha anche il sostegno del Pci (che non entra in giunta): “la politica delle carte in regola” diventa quella ufficiale. Punta sulla programmazione e le risorse locali (scrive a Zaccagnini per motivare il suo “no” al Ponte), controlla le spese degli assessorati. Interviene anche nell’edilizia «opponendosi allo scempio del territorio che aveva portato al “sacco di Palermo”». Provvedimenti concreti che restringono gli ambiti di manovra delle cosche e dei ras della Dc. Nell’autunno ‘79 dispone un’inchiesta sugli appalti di sei scuole che a Palermo sono finiti in mano a sei ditte riconducibili al boss Rosario Spatola. Fatti su cui indaga anche il procuratore di Palermo Gaetano Costa, ucciso il 6 agosto.

La situazione è tesa, e Mattarella lo capisce. Ne parla anche al ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Si impone la strategia dei corleonesi di Totò Riina e Cosa nostra nel ‘79 uccide il giornalista Mario Francese, il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il magistrato Cesare Terranova. Il cerchio si chiude con Mattarella.

«Se ragionassimo di fantastoria dovremmo chiederci cosa sarebbe successo se Mattarella non fosse stato ucciso?», si chiede Basile. La storia non si fa con i sé. Ma la Dc, che con Zaccagnini (e Mattarella, destinato a fargli da vice) sembrava orientata a continuare il dialogo col Pci, scelse invece Bettino Craxi.

Chi ha ucciso Mattarella? Si conoscono i mandanti (la commissione di Cosa nostra, i cittadini e i corleonesi, che interrompono il nuovo corso della Regione) ma resta un mistero sugli esecutori materiali. La moglie di Mattarella, Irma Chiazzese, riconosce come killer il terrorista nero Giusva Fioravanti che finisce anche in un’inchiesta di Giovanni Falcone. Forse Cosa nostra e terroristi hanno l’interesse comune a indebolire lo Stato e pensano di poter condizionare gli eventi. Forse non ci riescono, ma certo la Sicilia di Mattarella era diversa da quella di Cuffaro o di Lombardo.

1980-2010, fatti della storia d’Italia (che parlano all’oggi)/2 – Intervista allo storico Bevilacqua

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Considera la casualità come un dato di partenza per partecipare a questo ragionamento sul 1980: «Diamola per scontata», avverte. È un gesto di prudenza assolutamente necessario per uno studioso. Poi però concede: «Bisogna fare una riflessione di metodo: il caso fa parte della storia e non bisogna stupirsi se esiste una coincidenza di eventi che si somigliano, creano coerenza, appaiono collegati». E allora con il professore Piero Bevilacqua, ordinario di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, inizia una rassegna sui tratti distintivi del 1980. A partire dallo scenario internazionale. «È indubbio che il 1980 segna una fase nuova – dice – e non solo perché come storici, simbolicamente, vediamo il punto di partenza di una nuova fase del capitalismo e di riorganizzazione dello Stato», ma anche perché «effettivamente si entra in un decennio che segna una svolta di molti elementi». Spiega infatti che soprattutto negli Usa e in Gran Bretagna «si manifesta una crisi fiscale dello Stato sociale, i ceti medio-alti considerano sbagliata la progressività del sistema fiscale e troppo caro il welfare. Accusano di parassitarismo le fasce deboli». Basti pensare che «il sussidio di disoccupazione in Gran Bretagna è talmente ricco da disincentivare la ricerca del lavoro» e che complessivamente «la popolazione invecchia e pesa molto sul sistema pensionistico». Un quadro – che si aggiunge al fatto che il modello dell’Urss di Breznev «è incapace di indicare prospettive nemmeno per se stesso» – che «favorisce la politica di Margaret Thatcher (iniziata nel ‘79)» e spalanca le porte a Ronald Reagan nel 1980.

Ecco quindi l’analisi dello storico di origine calabrese: «Gli anni 80 sono l’avvio di una fase storica nuova – spiega – in cui il capitalismo e l’elite borghese propongono un nuovo progetto di società». Ricorda Bevilacqua: «Quando Reagan si insedia – insiste – pronuncia la famosa frase “Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema” che rappresenta una novità storica assoluta per l’Occidente». Su queste basi, unite a «un’economia bloccata», nasce una svolta, spiega Bevilacqua. «A questo punto qualcuno tira fuori dalla tasca una grande suggestione: la proposta neoliberista». Che significa «meno Stato e più libertà ai privati». Un messaggio di «promessa di arricchimento» che «si articola in liberalizzazioni e nella vendita di pezzi importanti dell’economia pubblica, un messaggio di libertà dalla burocrazia e dai vincoli». Un messaggio che fa presa su larga parte della società ed esercita la sua fascinazione anche «sui partiti della sinistra».

Naturalmente la situazione internazionale non può non esercitare la sua influenza anche sul nostro Paese: «In Italia c’è il blocco dei partiti – afferma Bevilacqua – con una Dc che è diventata partito-Stato e un Pci che è cresciuto ma non appare in grado di essere alternativa». La soluzione, sottolinea lo storico, «viene intravista in Craxi e in un piccolo partito che si presenta come portatore di un messaggio di modernizzazione neoliberista, di esaltazione del privato, dell’effimero, dell’arricchimento individuale». Lungo queste linee teoriche «nascono le famose esortazione di Craxi (“Italiani arricchitevi”) o realtà come “la Milano da bere”», rileva. Soprattutto lungo queste linee teoriche e politiche nasce il fenomeno Silvio Berlusconi. «Berlusconi si inserisce nell’alveo di questo mutamento epocale di cultura, psicologia, immaginario – osserva Bevilacqua – che inizia nel 1980 e si chiude con la crisi del 2008, come dimostra anche la “Breve storia del neoliberismo” scritta da David Harvey che, tra l’altro, dimostra che il Pil mondiale nell’ultimo trentennio sia cresciuto molto meno che nelle epoche precedenti». Su questo, il Bevilacqua-studioso precisa: «Voglio dire però che in nessuno degli scritti su Berlusconi, anche quelli molto seri, sono davvero evidenti i legami con il neoliberismo e la sfida che i ceti dominanti hanno lanciato alla sinistra e al movimento operaio». Aggiunge un’annotazione che andrebbe considerata nei commenti in voga in queste settimane sulla crisi di un’era politica: «Berlusconi finisce anche perché è finito il neoliberismo».

Poi il discorso torna agli eventi del 1980, ai tanti fatti importanti accaduti in quell’anno. «Diciamo che questa temperie storica – sottolinea Bevilacqua – unisce realmente gli episodi, li rende meno casuali, più figli dello stesso periodo». Poi aggiunge che visto che «dobbiamo calcolare la nostra soggettività e dobbiamo osservare anche che siamo portatori di idee di connessione» e visto che «conosciamo il sottofondo mondiale», possiamo «avere una lettura meno ingenua della casualità». Sono fatti importanti quelli del 1980, che – magari forzando un po’ le parole di Piero Bevilacqua – potrebbero avere (o trovare) una connessione. Quel che appare evidente è l’incidenza che hanno sulla realtà contemporanea, la capacità di proiettarsi nel 2010. Eppure, secondo lo storico, purtroppo parlano «pochissimo all’Italia di oggi. Perché viviamo in nell’epoca della dittatura del presente, in cui le notizie vengono consumate subito per vendere le nuove». Se questa classe dirigente avesse scelto di guardarsi indietro forse avrebbe capito qualcosa in più. «La storia aiuta sempre – sentenzia con un certo orgoglio Bevilacqua – e gli anni 80 fanno capire molte cose». È in quel periodo che «in Italia si arriva a un elevato grado di benessere ma con un crescente debito pubblico». In quel periodo cresce il mito individualistico «che ha impedito di fare due cose fondamentali: una legge urbanistica in grado di impedire il saccheggio del territorio e una legge per progettare i trasporti collettivi nelle città e tra le città e le periferie». Gli anni 80 mostrano insomma tutti «i limiti di una politica che esalta l’individualità privata e che fallisce». Non una battuta, ma un pezzo di un ragionamento più ampio, di un percorso di studio che l’ha portato a scrivere un libro (“Capitalismo distruttivo” in uscita per Laterza a gennaio) in cui «provo a fare il resoconto dell’ultimo trentennio». Il risultato è demoralizzante: «C’è meno crescita e più disuguaglianza», ci sono «il saccheggio del territorio, lo sfruttamento delle risorse del pianeta e il peggioramento della qualità della vita». E questa crisi strutturale, prevede, «è un disastro che durerà a lungo».

Ci sono altre due cose che alla fine della conversazione Piero Bevilacqua dice. La prima riguarda la partecipazione politica, e gli viene fuori sul filo del ricordo, della passione: «Nel 1980 siamo dopo l’omicidio di Aldo Moro: le Br entrano in crisi e tutta la responsabilità viene messa sulle spalle della sinistra, delle lotte per i diritti. Ricordo come fosse ieri – aggiunge – che pensare a una manifestazione di massa era considerato un atto politico osceno». La seconda si riferisce ai troppi misteri d’Italia, che nel 1980 hanno in Ustica e nella strage di Bologna due capitoli essenziali: «I misteri incidono sempre rapporto di sfiducia nelle classi dirigenti», tanto che «qualcuno ha teorizzato l’esistenza di un doppio Stato, uno reale e l’altro segreto». E in questo Paese «c’è un grande deficit di democrazia. Parte della classe dirigente è sempre stata infedele allo Stato e nei momenti di crisi ha cercato l’eversione. Vale per il fascismo, per i tentativi di colpo di Stato, per la strategia della tensione, per la P2». E chiude: «Anche Berlusconi è eversivo». Parola di storico.

Giuseppe Smorto: pezzi di Paese dati per persi

A un certo punto della conversazione si ferma un attimo, poi dice: «Il titolo di codice è rassegnazione». È l’estrema sintesi di un’analisi  lucida sul rapporto che esiste tra  l’Italia e  il suo sud, tra l’informazione e la Calabria. È anche la conferma che l’analisi è senza indulgenze: per i grandi giornali (per i quali lavora), per il sud (dal quale proviene). Giuseppe Smorto è nato a Reggio Calabria ma vive a Roma da una vita. Fa il giornalista e guarda al Paese e alla sua città da un osservatorio privilegiato: è condirettore di Repubblica.it, il principale mezzo di informazione web del Paese.

Pensiamo che esista in Italia un doppio problema: quello della rappresentazione del sud e quello dell’autorappresentazione. A noi paiono del tutto insufficienti. È d’accordo?
A casa mia  si  leggeva  Il Giorno. Lo dico per  sottolineare che è passata un’epoca e che c’era un tempo in cui al sud andavano i grandi inviati. Proprio nelle ultime settimane nella sua rubrica sull’Espresso Giorgio Bocca ha ricordato alcune vicende calabresi raccontate nei suoi viaggi.Oggi è diverso.
Senza  nulla  togliere  agli  inviati  di  oggi,  alcuni  dei quali sono molto bravi, ho l’impressione che ai tempi del grande giornalismo su carta ci fosse un maggiore investimento sul sud da parte dei grandi giornali.

Perché accadeva?
Era come se ritenessero il sud ancora una questione aperta, risolvibile. Oggi invece s’è creato un effetto di abbandono e rassegnazione che va in direzione doppia. Oggi è come se il sud, o almeno certe zone del sud, nei grandi giornali venisse considerato  un  problema  non  risolvibile  a  breve  termine. Questo, probabilmente, ha come conseguenza una più scarsa attenzione e un investimento giornalistico minore. Ma questo non accade solo per  i giornali. Recentemente ho  letto  il  libro di un magistrato che era stato in servizio a Locri: il ragionamento mi pare sempre lo stesso e riguarda il fatto che la Calabria è bella, la gente splendida ma poi bisogna andare via perché dalle nostre parti non si può combinare nulla di buono. Anche questa è rassegnazione. E in effetti la situazione è difficilissima: la procura di Reggio Calabria sotto attacco, Rosarno, il territorio ― checché se ne dica ― completamente controllato, la scarsità o forse dovrei dire assenza delle denunce. Poi succedono delle cose e la situazione cambia.

Spiegati.
In un periodo come il nostro in cui interi territori vengono considerati completamente consegnati alla criminalità succede che c’è uno scrittore che si chiama Roberto Saviano e cambia lo stato dei fatti.

Alla Calabria manca Saviano?
No,  non  è  la  risposta  da  dare.  Però  osservo  che  quando l’informazione riesce a trovare le forme ― anche artistiche ― di
raccontare un territorio alla fine la situazione cambia, i risultati  cominciano  a esserci e  i  casalesi  vengono  condannati.  In questo caso, c’è  stato un  investimento dell’informazione:  s’è parlato  più  di  casalesi  che  di  ‘ndrangheta,  eppure  sappiamo benissimo  che  la  ‘ndrangheta  è  al momento  l’organizzazione criminale più  forte. Nelle  scorse  settimane Saviano ha  scritto un articolo-provocazione  in cui  sostiene che dobbiamo essere tutti osservatori del voto sul modello di quelli Onu. La cosa viene presa come una boutade, eppure se si va in tantissimi paesi della Calabria o della Campania di osservatori ce ne sarebbe un gran bisogno. La verità è che fa paura in Italia dire che ci sono zone come l’Afghanistan. Insomma, alla Calabria manca il modo di finire in prima pagina con le idee.

I grandi giornali si sono fatti guidare da Saviano, eppure
avrebbero la forza e l’autorevolezza di fare da sé.

L’informazione non è pedagogica, è lo specchio del Paese e racconta quello che la gente vuole leggere. E poi è molto difficile mettere in pagina la tragica normalità dei fatti che, dopo il secondo o il terzo giorno, non interessa più nessuno.

Il  tuo giornale o un altro grande giornale però potrebbero decidere di lanciare una grande campagna sul sud o la Calabria.Le  statistiche  che  abbiamo  a  disposizione  ci  dicono  che quelli  sono  i  posti  di  cui  i  nostri  giornali  si  occupano  di  più.
Certo,  si potrebbe  fare  sempre meglio, ma non potrebbe essere una battaglia quotidiana. Ci  sono delle difficoltà e delle carenze  però. Oggi  innanzitutto  c’è molta meno  cronaca ―  i giornali sono stati sostituiti da internet ― per cui o si fanno dei grandi approfondimenti, come è stato per esempio su Rosarno, o fatalmente non ne parli. Oggi a volte si preferisce mandare gli  inviati  in Colombia  senza pensare che  in certi momenti  la Colombia ce  l’abbiamo alle porte di casa. E poi forse bisogna guardare a cosa è accaduto a Palermo.

Siamo più avanti a Palermo.
Forse non ce ne rendiamo conto fino in fondo, ma nei fatti a Palermo la mafia è in totale disfacimento: resta un solo capo e l’organizzazione è allo sbando tanto da non riuscire neppure a chiedere il pizzo.
A Palermo c’è tanta gente che ci mette la faccia. È un processo più avanzato,  in Calabria non  succede ancora, la situazione è molto diversa. Ma credo che ogni tanto si dovrebbe parlare delle esperienze positive e magari non considerare la situazione come irrisolvibile.

Ma sono solo i grandi media a considerare “persi” certi pezzi d’Italia o si tratta di una convinzione che appartiene
all’intera classe dirigente?

Secondo me è la stessa cosa. I grandi giornali riassumono posizioni che stanno nella classe dirigente, che vivono nell’opinione pubblica. «Certo che gli aborigeni li avete trattati davvero molto male». E lui risponde: «E voi gli zingari come li avete trattati?» Non sono più un’emergenza i rom, ci sembra normale ormai che i bambini stiano per strada, che esistano quei campi. Allo  stesso modo  sembra normale a  tutti che  la Calabria viva questa condizione.

Appare normale anche ai calabresi.
Il  titolo di codice è “rassegnazione”. È così da parte dei giornali  che  ritengono  quel  territorio  senza  possibilità  di miglioramento a breve periodo e non prendono in considerazione quello che è accaduto con la mafia. Ma c’è rassegnazione anche tra  i cittadini calabresi, divisi tra quelli che godono di questa situazione di arretratezza e assistenzialismo (senza magari essere collusi) e quelli che stanno male ma sono convinti che nulla possa cambiare, che non ce n’è la forza. Tutto questo conviene anche a chi controlla il territorio. C’è anche un problema sociale: nel momento in cui si disgrega il tessuto del lavoro, faciliti il  lavoro dei clan. Più  licenzi, meno  lavoro offri e più braccia fornisci alla criminalità organizzata. Basti pensare alla trasformazione subìta da Crotone: era una grandissima realtà operaia e contadina con un tessuto democratico importante e anche lei è  finita  in mano alla  ‘ndrangheta con  famiglie che  riescono a eleggere persino un senatore in Germania.

Sono diverse le questioni in campo.
All’inizio di gennaio ho posto la questione durante una riunione del giornale. Ho detto: c’è stato l’attentato alla procura di Reggio Calabria, a due passi c’è la Piana dove è scoppiato il caso Rosarno e dall’altra parte la Locride. È una cosa normale che una zona così vasta di territorio ― dove peraltro vogliono costruire  il ponte ― viva questa emergenza? Abbiamo parlato molto di Reggio  in quelle  settimane.  Lo  ripeto:  i  giornali potrebbero avere un ruolo e, secondo me, in determinati periodi ce l’hanno. Ma è lo Stato a dover essere più presente per prima cosa, non i giornali.

Nessun  grande  giornale  ha  una  redazione  in  Calabria.
Questo è un problema.C’è un motivo per cui tutti i giornali non hanno una redazione in Calabria. Stiamo parlando di un territorio economicamente depresso e se non hai una base di possibili inserzionisti non  apri.  E  c’è  anche  la  complicazione  che  devi  stare molto attento agli inserzionisti, a che soldi arrivano. Peraltro stiamo parlando di un mondo  in crisi  in cui  i giornali non aprono più redazioni locali. Comunque l’impressione è che ― storicamente ― l’investimento informativo sul sud sia minore che in passato.

In questo può aiutare il web?
Il web può essere utile per tutti i luoghi che non appaiono nella grande informazione: può dare visibilità se lo fai bene e in modo serio.

Per la Calabria probabilmente l’omicidio di Peppe Valarioti e Giannino Losardo hanno segnato una cesura. E anche la memoria di quelle storie si sgretola.
Accade che alcune  storie  siano valorizzate di più e altre meno. Accade  che  le  cose ―  anche  le morti ―  in  certi  posti siano considerate più normali che altrove. E poi trent’anni  fa soprattutto c’erano un altro sindacato e un altro partito, i fatti di Reggio erano ancora caldi. Diciamo che si può arrivare tranquillamente alla conclusione che, in qualche modo, tutti hanno abbandonato quel territorio: l’informazione, la politica.

La politica.
Beh,  quale  politico  abbiamo  espresso  negli  ultimi  anni, quanta Calabria  i politici hanno portato all’attenzione del Paese? Non mi  pare  affatto  che  la Calabria  abbia  prodotto  una classe politica di grande livello.

In effetti no. La Calabria però produce  tantissimi emigranti di grande qualità e successo.
È vero. E si dovrebbe trovare una modalità per valorizzare tutte le intelligenze che stanno in Calabria o fuori dalla Calabria in nome del futuro del territorio. Bisogna trovare il modo di  valorizzare  la nostra  cultura del  saper  fare  le  cose. Chi  lo fa? Difficile da  realizzare, ma  trovo affascinante  l’idea di  far ragionare il meglio che la Calabria ha prodotto su cinque o dieci grandi progetti concreti.

E  questo  fa  parte  dell’autorappresentazione.  Riguarda il modo di esprimersi e  raccontarsi della Calabria. Corrado
Alvaro a parte, se pensi alla Calabria che artisti ti vengono in mente?

Ai giornalisti più giovani dico sempre: leggete Corrado Alvaro  se volete capire come  si  scrive  in  italiano… Mi viene  in mente  Carmine Abate  che  penso  sia  un  grandissimo  scrittore anche se  forse per troppe volte ha  raccontato dei calabro-albanesi, poi Mimmo Gangemi. A lui vorrei chiedere: perché hai iniziato a scrivere solo dopo la pensione? E di registi Calopresti, Amelio.  Però  confesso  che  l’unico  film  bello  sulla  Calabria  è “Un ragazzo di Calabria”. L’ho rivisto recentemente e mi sono commosso quando il ragazzo protagonista ha vinto i giochi della gioventù. Oggi quel film non glielo farebbero nemmeno fare…

(tratta da “Il caso Valarioti”)

Appunti per iniziare – Cinque anni

Cinque anni fa. L’idea di raccontare la storia di Peppe Valarioti è di cinque anni fa, anche la prima intervista è di cinque anni  fa. Un  giorno di  fine estate del  2005  siamo  stati  a Vibo Valentia per incontrare Peppino Lavorato, mitico sindaco di Rosarno  ed  ex  parlamentare  antimafia.  Non  lo  conoscevamo  di persona. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la storia di Peppe Valarioti, ucciso dalla  ‘ndrangheta a Rosarno a trent’anni. Gli è morto tra le braccia Peppe. Ascoltando le sue parole ci siamo subito  resi  conto  di  quanto  fosse  doloroso  quel  ricordo,  e  di quanto tuttavia  lo sentisse necessario e urgente. Una conversazione decisiva: così  la nostra  idea è diventata  l’inizio di un percorso arrivato fino a oggi.

Peppe Valarioti meritava di essere raccontato. Perché tutte le vittime innocenti della ‘ndrangheta hanno diritto al ricordo e alla memoria. E anche perché Peppe Valarioti è un personaggio straordinario. Davvero. È un precario che vive la Calabria degli anni Settanta, la Calabria dove la ‘ndrangheta spadroneggia e il  lavoro  scarseggia,  le  rivolte  dei  braccianti  sono  un  ricordo sbiadito e  la rivoluzione dell’Italia degli anni Settanta  la puoi osservare solo da lontano. Dove il futuro è un alibi o un’ipotesi inconsistente.

Peppe è un professore, un intellettuale che come Pier Paolo Pasolini sa leggere la speranza negli sguardi dei bambini e dei  ragazzi del  suo paese anche quando  la  speranza non c’è, che sa guardare avanti di vent’anni, che sa dire cose scomode. È anche un uomo che ama il rapporto diretto con la sua terra, che questo  significhi  lavorare  i campi di  famiglia o difendere il suo paese dalla speculazione edilizia. Sta con  il movimento dei disoccupati, crede che l’arte e la cultura siano strumenti di emancipazione collettiva. Le promuove e  le pratica. Sente  la politica come un bisogno, come un mezzo per il cambiamento delle condizioni di vita delle persone. La sceglie quando questo significa puntare  sulle  risorse del  territorio mentre Giulio Andreotti promette cattedrali nel deserto prendendo il caffè con i boss. Entra nel Pci quando vuol dire schierarsi senza ambiguità contro la ‘ndrangheta e i comunisti sono nel mirino dei clan.

La storia di Peppe Valarioti è la storia di un’epoca, gli anni Settanta in Calabria, dal sapore unico. I protagonisti sono i disoccupati che si organizzano e chiedono un lavoro e quelli che fanno nascere il movimento antimafia, i politici onesti e quelli corrotti,  sono  gli  ‘ndranghetisti  che  fanno  le  guerre  e  quelli che  diventano  imprenditori,  politici  e massoni,  sono  i morti ammazzati che non hanno giustizia. Una storia, tante storie di trent’anni fa. Che contengono ogni ingrediente della Calabria, dell’Italia, di oggi.

Cinque anni  fa. Ragionavamo di noi, della nostra  identità di meridionali, di calabresi. Avvertivamo forte un senso di inadeguatezza. Che pensavamo dovesse essere collettivo e che sentivamo innanzitutto come personale, privato. Siamo senza memoria, ci siamo detti. Non avevamo altra scelta che quella di cominciare a scoprire, ricordare, e raccontare. Abbiamo girato in lungo e in largo la Calabria. Abbiamo incontrato  tanta  gente  che  se  ne  fotte. Gente  che  ha  perso per strada la parte migliore di sé, che ha paura, s’è abituata a confondere il diritto con il favore, che coltiva il brutto e si fa  imporre dove mettere  la  croce,  che  soffre e poi dimentica. Abbiamo  incontrato  incapaci e corrotti, «pavidi travestiti da  intellettuali e carnefici mascherati da censori», venduti e persino svenduti, schiavi, barbe finte e padrini. C’è un vasto campionario, che tutti conoscono.

Siamo andati avanti. Per fortuna. Incrociando molte altre persone eccezionali, nuove storie bellissime. A tutte abbiamo prestato attenzione, cura. È stato un viaggio difficile, pieno di curve e di strade interrotte. Eppure straordinario ed entusiasmante. Un  viaggio  incompleto,  che non dovrebbe avere mai fine come certe tournée dei folksinger americani. Siamo stati dentro la memoria dei calabresi. Con pazienza e rigore abbiamo provato a tenerne insieme i pezzi, a recuperarne sguardi e suoni, odori e colori. Testardamente abbiamo cercato e trovato la meglio gioventù della Calabria, di ieri e di oggi. Forse anche di domani. Abbiamo incontrato chi ha combattuto per i diritti, sociali e civili. Ascoltato dalle voci dei familiari, degli amici, dei compagni il racconto delle storie di chi è stato ammazzato dalla ‘ndrangheta e anche la vita entusiasmante e complicata di chi contro i boss ha avuto la meglio. Tante persone oneste, semplici, perbene. Delle quali ci sentiamo orgogliosi. Abbiamo parlato con i vincitori e i vinti. Tutti dalla stessa parte, però.
Con ostinata partigianeria ci siamo messi al servizio di questo mondo. Travolgente e fragile. Per raccontare, e raccontare. E contribuire alla costruzione di una nuova identità meridionale. Era nata  l’associazione antimafie daSud. Un’associazione che cerca di ripensare il modo conosciuto sinora di concepire mafia e antimafia, nord e sud, potere e critica al potere. Che pensa che fare antimafia significhi partecipazione, creatività, rivendicazione di diritti. Che sperimenta modi di essere e praticare Sud.

Dopo cinque anni di viaggio nella memoria di una Calabria che si ostina a dimenticare, arriva finalmente il libro dedicato a Peppe Valarioti.  Il caso vuole che mentre  lo scriviamo scoppi  la  rivolta di Rosarno. Ci  siamo  spesi con grande passione e impegno, spesso in amara solitudine, per riattraversare quelle strade. Ci siamo spesi al fianco dei lavoratori migranti sfruttati nella Piana che fu terra di grandi lotte e conquiste. Farlo è stato un po’ come fare rivivere Peppe Valarioti. Ci sarebbe stato anche lui, senza dubbio, in questa battaglia. È proprio vero: le idee non possono morire, basta voler raccogliere il testimone. “Il  caso  Valarioti”  gode  di  numerosi  privilegi.  Contributi preziosi, da leggere e conservare.

Chi nella vita ha deciso di fare il giornalista oggi ha pochi, pochissimi punti di  riferimento. Uno  si chiama Giorgio Bocca, averlo  in questo  libro è un onore. Gli abbiamo chiesto di raccontarci come un grande inviato del nord ha conosciuto il sud. S’è accostato a questo progetto con curiosità, umiltà e rigore. Ennesima lezione di giornalismo.
Abbiamo chiesto un’analisi sullo stato del movimento antimafia a Enrico Fontana. Enrico è un giornalista, ha fatto politica ma è un rappresentante della società civile, è l’inventore della parola “ecomafia” e conosce come pochi le associazioni. Offre un punto di vista molto interessante, un ottimo strumento di lavoro.

Chi vorrà leggere questo libro, potrà leggere anche le parole di Giuseppe Smorto, giornalista di razza e condirettore di Repubblica.it. È un reggino, Giuseppe. Con lui abbiamo provato a capire come (secondo noi male) i media raccontano il sud. Ci ha risposto con franchezza, coraggio e lucidità. La conclusione alla quale siamo arrivati ― e che vi invitiamo a leggere ― fa un po’ paura.

La  prefazione  è  affidata  a  Filippo  Veltri,  caporedattore dell’Ansa Calabria, per varie ragioni: perché ha seguito da vicino come giornalista i fatti, perché è stato testimone privilegiato delle principali vicende calabresi degli ultimi trent’anni e perché non ha un’idea della memoria e dell’informazione come proprietà privata. È un giornalista bravo, Filippo. E generoso.

È impareggiabile il contributo offerto a questo libro da Carmela Ferro,  la compagna di Peppe Valarioti. Le parole scritte per questo libro sono dirompenti. Per verità, passione, amore. Dobbiamo moltissimo  a  Peppino  Lavorato,  per  questo  libro e per l’esempio. Di politico lungimirante, di amministratore coraggioso,  di  cittadino  onesto,  di  uomo  appassionato. A  lui, amico sincero, abbiamo chiesto  la postfazione e un ricordo di Peppe. Gli abbiamo fatto anche fare la promessa che scriverà la storia della sua vita. Che tutti devono conoscere. Il caso Valarioti chiude un ciclo. Di tutti noi, di ciascuno di noi. Se ne aprirà, speriamo, un altro. Intanto, buona lettura.

p.s.
In  un’antologia  di  Bucoliche  e Georgiche  Peppe Valarioti aveva  annotato  una  frase molto  significativa:  “La  vita  è  una guerra totale; pochi tentano di mettere la pace ma sono soffocati dalla mischia”. L’ha  scoperta Vanessa, una  sua pronipote che ama stare tra i libri dello zio Peppe. Ecco, l’idea è che nel nostro Mezzogiorno si trovi la forza di non restare soffocati.

(introduzione al libro “Il caso Valarioti”)