15“Sì, qualche volta sì”. Quando gli domandi se gli capita di pensare che s’è messo in un bel guaio, lui sospira, si lascia andare a una risata amara e ammette che sì, ci pensa. Altroché se ci pensa.
Roberto Romanella, vigile del fuoco di 52 anni, da quattro mesi è presidente del Sesto municipio di Roma, un territorio monstre, 113 km quadrati di periferia per 260mila abitanti. Come una media città italiana.
Il municipio più difficile e più povero (con un reddito medio di appena 17mila euro: gli altri superano i 20mila, con punte oltre i 40), il più disagiato (alcuni quartieri sono persino senza l’acqua corrente): quello di Tor Bella Monaca e della droga, dell’università di Tor Vergata e del (mancato) villaggio olimpico di Roma 2024, del film rivelazione “Lo chiamavano Jeeg Robot” e del campo rom (Salone) più grande d’Europa.
Il municipio dei topi che “giocano” al parco con i bambini. Le immagini hanno fatto il giro del mondo: i ragazzini ne hanno contati – e ripresi con il cellulare – 25 in cinque minuti.
Lo scandalo è planetario – in questi giorni a Tor Bella Monaca gira una tv giapponese – la sindaca Virginia Raggi si precipita sul posto e ordina le pulizie straordinarie. Tutto inutile, o quasi: la situazione torna presto a livelli di emergenza. Così i cittadini, ogni giorno e in tanti, bussano alla porta del presidente. Chiedono più servizi, ricevono come risposta la promessa di un impegno, quasi mai una soluzione.
“I problemi sono enormi, le risorse insufficienti, i tempi burocratici lunghi. E noi non abbiamo poteri”, afferma preoccupato Romanella. “Ci sto perdendo il sonno: ogni notte mi sveglio all’improvviso e penso alle cose da fare”, confessa. Inutile provare a spiegare che “spesso non dipende da noi”: i cittadini pretendono i fatti. D’altra parte la politica di oggi è così, anche per responsabilità di chi sull’antipolitica ha costruito il suo consenso.
Tanto consenso. E tante aspettative. Roberto Romanella è il più votato tra i 12 (su 14) presidenti di municipio eletti dal Movimento 5 Stelle alle amministrative: ha sfiorato il 73%, lasciato il Pd fuori dal ballottaggio e azzerato la sinistra, succedendo al potente Marco Scipioni (Pd), sfiorato dalle inchieste e sfiduciato dal suo partito.
“Qui s’è alzato un grido di dolore”, racconta. Così oggi il suo municipio è l’avanposto della rivoluzione (tutt’altro che iniziata) grillina nella Capitale. Romanella lo sa: “Sentiamo forte il carico, governare è difficile ma ci vogliamo provare”. E promette: “Un po’ alla volta, cambieremo le cose. Ai miei assessori dico sempre: niente parole, facciamo le cose con le mani”. Tra mille difficoltà, “in questi giorni sono partite le prime manutenzioni a strade, scuole e giardini”. La politica dei piccoli passi, favorita da un’opposizione silente e dalle polemiche che da mesi avvolgono il Campidoglio.
“Il M5S ha finalmente capito la differenza tra fare i comitati e governare – commenta Federica Graziani, direttrice del giornale del territorio “La Fiera dell’Est” – la giunta è evanescente, ci sono pochi consigli municipali, le commissioni non producono. Mancano progettualità, indirizzo politico e capacità di decidere: elementi essenziali in questo territorio così particolare”.
È un grande, irregolare e contraddittorio mosaico quello che emerge osservando dall’alto questo pezzo di Roma. Vale la pena attraversarlo, scoprirne alcune tessere. Seguendo il tracciato della Metro C, nuova e preziosa spina dorsale del municipio, un lungo serpente nato per unire l’estrema periferia est con il centro.
PANTANO. La prima tessera è al capolinea, alla stazione Pantano – wc e scale mobile fuori servizio – al km 20 di via Casilina. Lì intorno, due grandi parcheggi quasi pieni: segno che, dopo mesi di “diffidenza”, in tanti adesso usano la linea C. All’uscita, pochi negozi e un benzinaio, un panificio noto in tutta la zona, una vaga aria di tristezza e la tentazione di risalire sulla metro e tornare a casa. Finché, dietro l’angolo, s’intravede un pezzo dell’antico acquedotto romano, vero prodigio architettonico. Nessuno lo direbbe, ma siamo in una delle principali zone archeologiche della Capitale.
“Sogno – rivela il presidente del municipio – di valorizzare il sito dell’antica città di Gabii”. Un’area semisconosciuta che “potrebbe stare nei percorsi turistici di chi va a Tivoli o ai Castelli”. Proprio volgendo lo sguardo verso i Castelli, diventa precisa la percezione di stare in un posto pieno di risorse. “Scalando” la collina, Roma – il più grande comune agricolo d’Europa – si trasforma infatti in un enorme vigneto pregiato, quello del vino Frascati, che già qualche millennio fa piaceva a Catone il censore, che 50 anni fa ha conquistato la denominazione Doc e oggi sta su migliaia di tavole italiane.
FINOCCHIO. Alla fermata Finocchio lo scenario cambia. Qui, in via Rocca Cencia, importante strada commerciale, Roma si gioca una delle partite più importanti: quella sui rifiuti. Sembrano preannunciarlo gli enormi cumili di immondizia che invadono le strade. Come via Sant’Alessio, dove scarti alimentari e divani, materiali edili ed elettrodomestici accompagnano l’asfalto per chilometri. Come via Camigliatello Silano, dove i rifiuti bloccano la carreggiata e addirittura impediscono il transito. “Siamo fuori controllo”, scuote la testa il cliente di un bar pieno di affollate slot. Tutto a pochi metri dall’impianto di Ama, la municipalizzata dei rifiuti. “A breve ripartirà”, annuncia la sindaca. Ma la vera questione – economica oltre che ecologica – riguarda l’impianto di proprietà, manco a dirlo, di Manlio Cerroni, dominus della monnezza romana. Lo scontro sull’utilizzo del tritovagliatore, finito nel mirino dei magistrati, ha portato alle dimissioni dell’ex capo di Ama Daniele Fortini, in polemica con l’assessore all’Ambiente Paola Muraro. In una fase di grande instabilità politica, il futuro degli impianti di Rocca Cencia resta incerto. Di sicuro c’è invece un continuo viavai di camion e un cattivo odore sempre più intenso che esaspera i cittadini.
BOLOGNETTA. La terza tessera del mosaico, a 400 metri dalla stazione Bolognetta, viene da lontanto, dal 2001, quando un’area di 13mila metri quadri viene sequestrata al cassiere della Banda della Magliana, Enrico Nicoletti. Aveva costruito un palazzo di sei piani, voleva farci un albergo. Non c’è riuscito. Lì oggi c’è un parco pubblico, con piante, marmi pregiati e il primo murale antimafia di Roma. C’è la Collina della Pace, attraversata ogni giorno da centinaia di persone. Non era scontato. La battaglia – con infiniti stop&go – è stata dura. Il passo decisivo, lo scorso aprile con l’inaugurazione dei due casali. In uno hanno aperto una biblioteca (una delle 4 del territorio) con 30mila volumi, alcuni dei quali donati dall’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel più piccolo doveva nascere un centro culturale polivalente, c’è invece un centro anziani. L’Associazione Collina della Pace denuncia il tradimento del progetto che, spiega Andrea Colafranceschi, di Libera, “doveva stimolare creatività e partecipazione”. Non è andata così, non ancora.
GROTTE CELONI. La stazione di Grotte Celoni separa la gigantesca Tor Bella Monaca e il piccolo villaggio Breda. Tor Bella Monaca con i suoi 30mila abitanti, le torri a 15 piani e i palazzoni di edilizia popolare (nel municipio, soprattutto tra Tor Bella Monaca e Ponte di Nona, c’è il 60% dell’edilizia popolare romana) è la dimostrazione del fallimento delle politiche urbanistiche che hanno ridotto la borgata in luogo di disagio, povertà e criminalità.
Il centro del quartiere è viale dell’Archeologia dove c’è il più grande mercato della droga cittadino, che ricorda quello delle vele di Scampia. Qui lavorano molti gruppi criminali, anche le mafie tradizionali. Fanno affari milionari e assicurano un welfare parallelo alle famiglie: 500 euro al mese se custodisci la roba, “200 a sera” se la spacci, “da 50 a 80” per le vedette. “Alcuni prendono stipendi da mille euro”, rivela un operatore sociale. Per un omicidio ne porti a casa 10mila. Ma Tor Bella Monaca è anche la più grande stanza del buco a cielo aperto. Nella pineta ai piedi di via dell’Archeologia, presidia il territorio il camper della fondazione “Villa Maraini”, che si occupa di riduzione del danno. Racconta un operatore: “Ogni giorno distribuiamo 300 siringhe”. A giovanissimi e adulti, uomini e donne, ricchi e poveri. La metà consuma eroina, gli altri cocaina (che costa sempre meno). Alcuni si bucano in macchina, altri seduti sul prato, dove gli aghi ormai sono più dei fili d’erba. Uno strazio.
Al villaggio Breda è tutto diverso: nato al servizio di una vecchia fabbrica, oggi è un quartiere ordinato e pulito, con case basse e cortili curati, la farmacia e la chiesa, il bar e la piazza. La dimensione di un paesino accogliente, tanto che viene voglia di fermarsi per un caffè e due chiacchiere. A poche centinaia di metri, lo stacco visivo è ancora più importante. C’è il consorzio Torre Gaia, il gigantesco residence della borghesia con villette e giardini che non sfigurerebbe nella ricca Roma Nord.
A Torre Angela, tipica periferia italiana, con auto in coda e capannoni commerciali, sembra essersi nascosta via delle Amazzoni. Al numero 34, una scoperta straniante: la chiesa apostolica, un movimento di cristiani protestanti, che raccoglie ogni domenica centinaia di cittadini africani, soprattutto nigeriani. La chiesa è uno spoglio garage con teli colorati alle pareti. Anche l’enorme croce sull’altare è realizzata con raso giallo. All’interno una rock band suona le canzoni di preghiera a un volume insopportabile davanti a un centinaio di fedeli – uomini e donne stanno divisi – che indossano abiti tradizionali con colori sgarcianti. Si canta e balla con energia contagiosa, come in una scena di Sister act. I fedeli pregano e aspettano il pastore, un nigeriano sulla quarantina (da 20 anni in Italia). Si chiama Lucky O. Omoghan, prepara il sermone, chiuso nel minuscolo ufficio ricavato in un angolo del garage. “Più di 500 fratelli frequentano la nostra comunità”. Nessuno di loro è bianco, ma “contro di noi non c’è più razzismo, non viene più la polizia”, rivendica. Eppure fuori da qui è diverso. In questo municipio – che ospita numerose comunità straniere e 15 dei 39 centri di accoglienza romani – la tensione è sempre altra e gli episodi di intolleranza frequenti, spesso favoriti dal soffiare sul fuoco dei gruppi di estrema destra.
TORRE MAURA. La stazione di Torre Maura è la prima della metro C dentro il Gra. Qui, grazie a Save the children, è in corso una grande sperimentazione sociale. In via Walter Tobagi, a ridosso del Parco di Tor Tre Teste, è nato un Punto luce (un altro è a Ponte di Nona). Un luogo bello e colorato – due strutture di cemento e vetro, con arredi moderni, e un campo sportivo polifunzionale – aperto a bambini e ragazzi da 6 a 16 anni.
“C’è isolamento e un’importante carenza di servizi”, racconta Elio Lo Cascio, referente romano del programma di contrasto alla povertà educativa dell’associazione. I numeri sono eloquenti: il 35% della popolazione ha meno di 18 anni (è il territorio più “giovane” della città), c’è la più alta percentuale di dispersione scolastica (il 15%, contro la media cittadina del 9), ci sono soltanto il 25,7% di diplomati (la media è del 34%) e appena il 3% (contro il 14,9) di laureati. Ecco perché diventa strategico intervenire con l’accompagnamento allo studio e i laboratori di arti e sport. Ogni trimestre passano da lì 250 bambini, il tentativo è di intercettarne molti di più. Anche per questo, come sottolinea Elio Lo Cascio, “lavoriamo anche con le famiglie: forniamo assistenza legale e abbiamo aperto un servizio di sostegno alla genitorialità”. I risultati di questa sfida impossibile saranno misurabili tra qualche anno, ma mostrare ai più giovani le opportunità nascoste dietro il brutto è un buon inizio.
L’ULTIMO MIGLIO. Dalla fermata successiva, da Torre Spaccata, la Metro C lascia il Sesto municipio, entra nel Quinto e, veloce, corre verso il Primo. Senza arrivarci mai. Metafora della solitudine dei cittadini del Sesto municipio. “Nel cuore di Roma si sta costruendo la metropolitana più complessa e straordinaria del mondo”, c’è scritto sul sito di MetroSpa. Eppure, ad oggi, questo prodigio della tecnica s’interrompe alla fermata Lodi. Un passo prima di congiungersi – a Piazza San Giovanni – con le altre linee, molto prima di raggiungere davvero il centro storico. Un sogno interrotto, insomma. Il simbolo, forse il paradigma, di una città che corre, si sbraccia e suda. Ma non taglia mai al traguardo.
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