Il Manifesto ha seguito la Lunga Marcia della Memoria per il Quarto Stato dell’anti-‘ndrangheta nel luglio 2008 con un diario giornaliero scritto da me. Questa è la raccolta delle pagine di quel diario: per raccontare il viaggio e ricordare le vittime della ‘ndrangheta
11 luglio 2008. Il murales della virtù
Sono tornati in cima alle impalcature, con barattoli di vernice e pennelli. Proprio come nell’estate di trent’anni fa, stanno restituendo colore e respiro alla memoria dell’anti-‘ndrangheta. Sono ancora loro, Corrado Armocida da Gioiosa Jonica e Giovanni Rubino (in arrivo da Milano) armati di passione, impegno civile, talento. E con addosso forte il ricordo del 1978, quando – protagonisti di un’alleanza virtuosa tra Nord e del Sud – è nato il Quarto Stato dell’anti-‘ndrangheta, il murales antimafia di Gioiosa Jonica. Che stava scolorendo, ed è stato salvato. Che sarà l’occasione per ragionare di Mezzogiorno e antimafia sociale, conflitti ambientali, diritti e memoria.
Partirà infatti il 16 luglio la «Lunga marcia della memoria», la manifestazione organizzata dall’associazione daSud con Libera e Movimenti – legata al campo di volontariato «Dipingiamo la memoria» (organizzato da Libera con Legambiente, con base alla cooperativa “don Dilani” di Marina di Gioiosa) – che culminerà nella grande festa di piazza del 27 luglio a Gioiosa Jonica quando si inaugurerà il murales restaurato.
Rocco Gatto era un mugnaio comunista, un testardo che s’era messo in testa di non pagare il pizzo e denunciare gli ‘ndranghetisti. L’hanno ammazzato il 12 marzo 1977. A lui è dedicato il gigantesco murales che campeggia in piazza Vittorio Veneto a Gioiosa, sulle pareti del teatro, realizzato un anno dopo dagli artisti vicini alla Cgil e al Pci. Un’impresa di creatività e impegno che rischiava d’essere cancellata dal tempo, da quell’oblio che piace tanto alle cosche: ti ammazzano, ti delegittimano, cercano di far dimenticare. E con il murales stava per svanire il ricordo di Rocco Gatto e dei tanti che sono caduti nel corpo a corpo contro le cosche.
Per questo motivo l’associazione daSud – nata nel 2005 «per mettere in rete competenze del Sud e per il Sud» – ha recuperato la storia di Rocco Gatto e ha promosso, con il Comitato pro murales teatro Gioiosa, un appello per salvare il Quarto Stato dell’anti-‘ndrangheta. Un appello subito sottoscritto da personalità come don Luigi Ciotti e Nando Dalla Chiesa, Francesco Forgione e Tano Grasso, artisti come Daniele Silvestri e Ascanio Celestini, Vauro e i Tetes de Bois, Pasquale Scimeca e Ulderico Pesce, realtà come la Locanda Atlantide di Roma e il circolo Zavattini di Reggio Calabria, associazioni, partiti, rappresentanti istituzionali e migliaia di cittadini. E che ha trovato in alcune istituzioni locali il sostegno necessario per il restauro.
In quel dipinto «c’è la storia di Rocco Gatto – sottolinea Alessio Magro, presidente di daSud – ma idealmente c’è tutto il movimento antimafia calabrese, fatto di straordinarie battaglie e cocenti sconfitte, di affermazioni di diritti e di morti ammazzati. Ci sono i caduti della politica e del movimento, studenti e amministratori scomodi, imprenditori e commercianti che hanno detto ‘no’ alle mazzette, magistrati coraggiosi, poliziotti e carabinieri onesti, bambine e bambini, semplici passanti e fieri oppositori delle cosche. Sono tanti, tantissimi: decine di vittime innocenti stanno nell’album di famiglia della lotta alla ‘ndrangheta. Il murales, simbolicamente, le ritrae tutte».
La storia di Rocco Gatto e del murales ha girato su e giù per l’Italia. Adesso torna in Calabria. «Grazie all’appello per il restauro – spiega Salvatore Fuda, rappresentante del comitato – si sono rimessi in moto passioni e impegni che sembravano sopiti. Stiamo provando a ricostruire le basi per un’alleanza forte tra associazioni, comitati, buona politica, artisti per l’affermazione dei diritti di cui in Calabria oggi c’è bisogno».
Sarà una grande festa dell’impegno, della memoria e dei diritti la Lunga marcia della memoria. Un modo per festeggiare il restauro, raccontare una Calabria diversa, scavare negli assetti di potere che si annidano anche nei posti più insospettabili. Nella politica, nella burocrazia, nella società civile.
«Momento di fusione tra Marcia e Campo sarà la realizzazione di nuovi murales antimafia da parte dei volontari – spiega Francesco Rigitano, responsabile di Libera Locride e del campo – arriveranno giovani dall’Europa, l’Asia e l’America, animati dalla volontà di diffondere lo spirito antimafia. Attraverseranno i nostri territori, conosceranno la Calabria migliore, le storie di chi ogni giorno si sporca le mani per contrastare le cosche e conquistare diritti, ottenere nuovi spazi di normalità e libertà. Una sfida difficile a queste latitudini, ed esaltante».
Non resta che mettersi in marcia. Alla ricerca di un Mezzogiorno liberato.
17 luglio 2008. Storie dimenticate dalla Calabria della ‘ndrangheta
Partita. In cammino fino al 27 luglio attraverso la Calabria che «resiste», da Reggio a Gioiosa Jonica: per dire «no» alle cosche, recuperare storie dimenticate, ragionare attorno a una nuova idea di Mezzogiorno finalmente «liberato». E’ partita ieri la Lunga marcia della memoria, la manifestazione organizzata dalle associazioni «daSud» e «Libera» e collegata al restauro del murales di Gioiosa Jonica dedicato a Rocco Gatto e alle vittime della ‘ndrangheta. E’ partita con l’artista Davide Casile che ha realizzato il primo dei nuovi murales antimafia (altri ne nasceranno nei prossimi giorni in tutti i paesi attraversati dalla carovana), con Niccolò Fabi e Pino Marino, raffinati cantautori romani, a pronunciare con la loro musica un deciso «no» alla ‘ndrangheta dal palco istallato sul lungomare della città dello Stretto, con il giornalista Luciano Mirone (autore de «Gli insabbiati») che ha raccontato otto straordinarie storie di giornalisti assassinati da Cosa nostra in Sicilia, con la festa della Cgil e il suo segretario Francesco Alì a fare da padroni di casa (perché a certe latitudini più che altrove la resistenza alla mafia si intreccia con la lotta per i diritti e per il lavoro).
E con don Tonio Dell’Olio, arrivato (e tornerà) per raccontare nuove e autentiche testimonianze di impegno, con professori universitari e magistrati, sindacalisti e politici che hanno discusso di quale Mezzogiorno vogliamo. Sono in marcia, daSud e Libera, insieme a undici ragazzi di tutto il mondo giunti in Calabria per partecipare a un campo di volontariato e realizzare nuovi dipinti per la memoria anti-‘ndrangheta. Con i giovani registi di Frame farm che stanno documentando tutto quello che accade. E con tante donne e tanti uomini che hanno capito che di fronte al ricatto della ‘ndrangheta, della cattiva politica, del malaffare c’è sempre un modo per dire di «no». Una piccola iniziativa, unica nel suo genere, che vuole smuovere le acque in una regione che spesso fa notizia solo per storie di «malaffare». Ogni giorno su questo giornale troverete una piccola cronaca, una storia che non ha mai valicato i confini di paese, un piccolo esempio di resistenza.
18 luglio 2008. Antonino Tripodo, che fu ucciso per un passaggio
E’ un Paese senza memoria l’Italia. Troppe volte, troppo spesso. Soprattutto se parli di mafia, se parli di donne e uomini innocenti uccisi dalle logiche dei clan. Per questo daSud e Libera si sono messe in marcia in provincia di Reggio Calabria, quella di Africo e San Luca, dei protagonisti della strage di Duisburg e delle faide che durano decenni. Questo Stato non ricorda i suoi martiri e a volte fa il gioco dei boss. Perché i boss prima ti uccidono e poi lo fanno ancora spargendo veleni. Fanno «la tragedia», spiega il magistrato di Palmi Stefano Musolino intervenendo alla seconda tappa della Lunga marcia della Memoria, e cioè mescolano ad arte il falso e il vero per infangare il ricordo, per far dimenticare. E lo Stato non reagisce. Poi capita anche, e non di rado, che lo Stato si dimentica di essere Stato.
E non solo non ti difende ma ti tradisce. Come ha ricordato Mimmo Nasone, referente reggino di Libera, a proposito di Antonino Tripodo, ammazzato a Reggio Calabria nel 1979 per avere dato un passaggio con la sua auto alla persona sbagliata. Ha lasciato una moglie in gravidanza. E lo Stato? Non solo non ha trovato i colpevoli del suo omicidio, ma ha anche tradito la sua memoria. E suo figlio, Antonino come lui, al dolore ha dovuto aggiungere la rabbia di scoprire che tutti i faldoni e i documenti su suo padre sono scomparsi, non sono più negli archivi del Tribunale. Della storia di Nino Tripodo, martire della ‘ndrangheta, non c’è più traccia nelle stanze del Potere. Per questo dalla Lunga marcia della Memoria torna prepotente la richiesta di uno Stato credibile.
19 luglio 2008. Una piazza nel nome di Cecè
In fondo, anche a San Benedetto del Tronto c’è il mare. Aveva tentennato quella volta, sarà stato il 1986 o il 1987, Vincenzo Grasso. S’era stancato di stare a Locri, di subire pressioni e minacce. E di sentire nel cuore della notte gli spari, sordi, fortissimi che sembrano esplosi nella stanza accanto alla camera da letto solo perché aveva deciso di fare l’imprenditore onesto. Ne aveva parlato anche con sua moglie Angela, Vincenzo Grasso, Cecè. E a San Benedetto c’era andato davvero. Poi più nulla. Alla fine è prevalsa la voglia di restare, e dimostrare che anche a Locri puoi avere una concessionaria d’auto e non pagare.
E denunciava, Cecè. C’è una pila di denunce a casa sua, dal 1982 al 1989. Sette anni, fino al 20 marzo del 1989. E’ quasi l’ora di cena quando due killer entrano in azione: lo hanno ammazzato davanti alla saracinesca della sua officina. Dopo 20 anni, ancora una volta, nessun colpevole. Nonostante la famiglia sia stata parte civile nel processo. Nel ’97 lo Stato consegna una medaglia al valor civile a Cecè. Alla memoria di Cecè.
Quella memoria che giorno dopo giorno la sua famiglia tiene viva. Restando a Locri, con coraggio, forza, dignità. Stefania, la figlia di Vincenzo, è straordinaria testimone e militante dell’impegno antimafia. Anche lei è in marcia con daSud e Libera. Per la memoria di Cecè e di tutte le vittime. Il comune di Motta San Giovanni, che ospita la marcia grazie al consigliere comunale «di lotta e di governo».
Gildo De Stefano, ha fatto un gesto concreto: la piazza che ha ospitato l’iniziativa, nella zona di Lazzaro, porterà il nome di Cecè. S’è impegnato pubblicamente il sindaco Paolo Laganà consegnando un riconoscimento a Stefania mentre i ragazzi del campo di Libera e Legambiente hanno realizzato il loro murale della memoria. E dalla (futura) piazza Vincenzo Grasso altre importanti storie di resistenza ai clan sono state raccontate da Filippo Conticello (nel libro «L’isola che c’è», Round Robin). Poi una riflessione franca, com’è necessario e spesso invece non è, su buona e cattiva amministrazione.
20 luglio 2008. Per Celestino e Nino, uccisi a vent’anni a Palizzi senza ancora un perché
Fuoco incrociato di lupare, in aperta campagna. Un agguato in piena regola, premeditato, studiato nei particolari, infallibile nella sua semplicità. Così sono stati ammazzati Celestino Fava e Nino Moio, uccisi la mattina del 29 novembre del 1996. Nel giorno dell’anniversario di via D’Amelio – una sorta di 11 settembre dell’antimafia – la Lunga marcia della Memoria ha ricordato Paolo Borsellino e le vittime delle mafie. A partire da Celestino e Nino, 22 e 20 anni, uccisi senza una spiegazione proprio a Palizzi, una lingua di terra del basso ionio reggino.
Celestino, appena congedato dal militare, in attesa di trovare un lavoro tutto suo, aiutava il suo amico di sempre Nino nelle campagne. Nino, figlio di agricoltori e pastori, dava una mano in famiglia. La mattina di quel 29 novembre Celestino e Nino erano andati in campagna la mattina presto – come accadeva spesso – a raccogliere legna. Li aspettava un commando: non poteva esserci scampo, sono stati trucidati.
Da allora le famiglie vivono nel dolore e chiedono di capire cos’è successo, cosa hanno visto-sentito-fatto-pensato di «sbagliato» quei ragazzi. Un rebus inestricabile che rende tutto più difficile.
La Lunga marcia tiene insieme memoria antimafia, rivendicazione di diritti e difesa di un’idea di territorio. Così a Palizzi associazioni, studiosi e giornalisti hanno discusso dei nuovi conflitti ambientali. E di ecomafie e smaltimento illecito di rifiuti, di navi dei veleni e della centrale a carbone di Saline, di scempio del paesaggio e ponte sullo Stretto. Per provare a offrire un nuovo modello di futuro in contrapposizione alla Calabria pensata come ricettacolo di eco-emergenze. Un punto di vista forte e poetico sul Sud lo ha fornito il cantastorie calabrese Nino Racco con lo spettacolo Meridion. Dedicato alla memoria di Marcinelle e al Mezzogiorno che non si rassegna.
22 luglio 2008. In memoria dei troppi morti uccisi senza motivo
Si può morire per errore. O perché, pur nemico dei clan, resti vittima della logica della faida. O perché denunci il malaffare. O, banalmente, per 300mila lire. In Calabria si può essere ammazzati per tanti motivi.
Ieri daSud e Libera, ospiti della cooperativa Valle del Marro nata sui terreni confiscati al clan Piromalli (dove i volontari di Libera e Legambiente hanno realizzato un nuovo murales antimafia), lo hanno ricordato durante la tappa di Polistena della Lunga marcia della memoria.
Il workshop in piazza – con don Pino De Masi, straordinaria figura di prete coraggio, a fare da padrone di casa – con associazioni e movimenti, storici protagonisti della lotta alla mafia insieme a diversi rappresentanti delle istituzioni è servito per continuare la ricerca di nuovi ed efficaci modi e percorsi di fare antimafia nel Mezzogiorno.
Ripartendo ancora una volta dal passato. E dal ricordo del vicepreside dell’Istituto magistrale di Polistena Giuseppe Rechichi, ucciso nel marzo ’87 da una pallottola vagante, dalla ricostruzione della storia di Ciccio Vinci, diciottenne comunista e leader studentesco freddato dai killer della faida di Cittanova perché stava nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, dalla rievocazione della vicenda di Luigi Ioculano, medico di Gioia Tauro e intellettuale a tutto tondo, assassinato dalla ‘ndrangheta il 25 settembre del 1998 per il suo impegno contro la corruzione sociale e civile in paese.
Poi la musica. Con il concerto dub – dagli originali suoni dal sapore europeo – della band dei Popucià. E con lo storico gruppo reggae degli Invece, anche loro testimoni dell’antimafia. In maniera tragicamente diretta: il 12 marzo 1997 fu assassinato il loro bassista, Totò Speranza, figura sui generis della Locride. Fumava marijuana e aveva un debito di 300mila lire. Tanto è bastato perché lo uccidessero. Da allora, loro continuano a suonare e a ricordare la sua memoria con un festival annuale a Bovalino, profonda Calabria.
23 luglio 2008. Per Lollò, a piedi fin dentro il cuore dell’Aspromonte
A piedi, fin dentro i luoghi più impervi e intensi della montagna calabrese. La Lunga marcia ricomincia da Pietra Cappa, gigantesco e affascinante monolite simbolo dell’Aspromonte, luogo del tragico ritrovamento del corpo di Adolfo Cartisano, Lollò, il fotografo di Bovalino.
Era una persona normale, Lollò, una persona perbene che aveva deciso di non pagare la mazzetta e fatto arrestare i suoi estorsori. Troppo per le cosche della Locride. Che gliel’hanno fatta pagare con un rapimento, il 18esimo nella sola Bovalino in pochissimo tempo. E così i calabresi accusati di essere i sequestratori si ritrovavano ad essere sequestrati. Due volte vittime: della ‘ndrangheta e del pregiudizio. Fino al rapimento di Lollò Cartisano, il 22 luglio 1993, mentre rientrava a casa con la moglie Mimma. Un tragico evento – anche il riscatto fu inutilmente pagato – che segna una piccola rivoluzione. La famiglia non accetta la logica del silenzio e gestisce il sequestro con determinazione, chiede giustizia ma inizia soprattutto a rivolgersi direttamente (e in via pubblica) ai sequestratori.
Dieci anni di messaggi inutili. Un’eternità per la famiglia del fotografo di Bovalino alla quale è stato persino impedito di elaborare il lutto. Poi una lettera anonima di un sequestratore che chiede perdono e indica il posto in cui è sepolto Lollò. È in Aspromonte, a Pietra Cappa, in quel luogo impervio e dalla bellezza mozzafiato che Lollò amava. «È stato duro perdonare questa persona – ha spiegato la coraggiosa figlia Deborah nel corso della commemorazione – ma era difficile anche non farlo: ci ha restituito papà». Non è morto invano Lollò Cartisano: il suo rapimento è deflagrante per la coscienza collettiva.
Nasce “Bovalino libera”, per la prima volta i giovani del paese (che gli adulti rifuggono) si ribellano alle cosche, e termina la stagione dei sequestri di persona. La famiglia di Lollò diventa un punto di riferimento antimafia per tutta la Calabria. Ieri in Marcia anche i familiari di altre vittime della ‘ndrangheta: di Giuseppe Tizian (ucciso nel 1989 a Bovalino), di Cecè Grasso (Locri, 1989), di Gianluca Congiusta (Siderno, 2005), di Francesco Borrelli (Cutro, 1982). È la memoria che diventa impegno.
24 luglio 2008. Per Peter, nigeriano dal cuore calabrese ucciso senza un perché
Nel giorno in cui viene decapitata la cosca Piromalli, i volontari la Lunga marcia della memoria raggiunge Reggio Calabria per fare visita alla cooperativa Rom 1995 nata su un bene confiscato e diventata luogo simbolo di diritti e giustizia sociale, la risposta concreta dell’integrazione alla retorica securitaria del governo. Dentro la cooperativa si fa anti-‘ndrangheta dando lavoro a giovani rom in cerca di un futuro: recuperano i rifiuti ingombranti della città, per difendere l’ambiente e dimostrare che culture diverse possono coesistere, nel rispetto reciproco.
Quell’integrazione con la quale si era confrontato a Reggio Calabria Peter Iwule Onyedeke, nigeriano di 33 anni, studente di Architettura (gli mancavano pochi esami per laurearsi) con la passione per il legno (dava una mano a un mobilificio in una periferia della città). Assassinato inspiegabilmente il 25 giugno 1995 dopo la mezzanotte fuori da una discoteca dove faceva il parcheggiatore abusivo per arrotondare. Sei colpi di pistola calibro 45, tutti al torace. Per lui non c’è stato scampo. Gli assassini sono scappati a bordo di una Passat nera risultata rubata. Era sposato e aveva due figli. Vivevano in Nigeria e lui ogni mese gli spediva i soldi guadagnati in Italia.
A Reggio Calabria condivideva un appartamento del centro con il fratello, anche lui studente universitario. Non era vicino a nessun ambiente criminale, frequentava i nigeriani (in quegli anni erano molti gli studenti universitari) e aveva trovato una sua dimensione anche nella comunità cittadina. Un omicidio incomprensibile, strano per l’obiettivo e la crudezza, ancora una volta senza nessun colpevole. La città seppe reagire. Scese in piazza contro la violenza mafiosa e per una volta ebbe il sostegno delle istituzioni. Con un piccolo gesto: le spoglie di Peter tornarono alla sua famiglia grazie all’intervento del Comune.
27 luglio 2008. In marcia per i morti di mafia e per un’altra Calabria. L’inaugurazione del «Quarto stato» dell’antimafia sociale
L’ultimo colpo di pennello è stato dato. Tra poche ore il murales anti-cosche, il Quarto Stato dell’anti-‘ndrangheta ritroverà i suoi colori e sarà dopo trent’anni restituito a Gioiosa Jonica e a tutti i calabresi che resistono e lavorano a un Mezzogiorno «liberato».
La Lunga marcia della memoria di daSud e Libera è arrivata a Gioiosa Jonica, nel cuore della Locride. Il popolo degli onesti è tornato in piazza Vittorio Veneto per l’inaugurazione del dipinto realizzato nel 1978 in onore di Rocco Gatto, il mugnaio che non pagava la mazzetta e denunciava gli ‘ndranghetisti assassinato un anno prima. Sono tornati sui ponteggi gli artisti che lo dipinsero trent’anni fa, Giovanni Rubino e Corrado Armocida. Hanno recuperato i colori di un tempo, di una straordinaria stagione antimafia. Del capitano dei carabinieri Gennaro Niglio e del sindaco del Pci Francesco Modafferi, del prete del dissenso Natale Bianchi e di tutti coloro che nel 1975 (primi in Italia) scioperarono contro i clan. Simbolo di tutti i gioiosani e i calabresi che si sono battuti e si battono contro le cosche.
Impegno e testimonianza, arte e musica per i diritti e la memoria. Oggi – ultima tappa della Lunga marcia partita il 16 luglio – si celebra la grande festa del popolo degli onesti. Momento finale di un percorso attraverso la provincia reggina con dibattiti e concerti, letteratura e teatro, film e documentari, con il confronto tra decine di associazioni. Conclusione di un viaggio difficile attraverso il territorio (dove i volontari di Libera e Legambiente hanno realizzato nuovi murales) alla scoperta delle pagine di storia nascoste o oscurate, stravolte dal tempo o dalle falsità.
Ecco perché i veri protagonisti della marcia sono stati Stefania Grasso (figlia di Cecè, assassinato a Locri nel 1989), Alfredo Borrelli (figlio di Francesco, ucciso a Cutro nel 1982), Giovanni Tizian (figlio di Peppe, ammazzato nel 1989 a Bovalino), Mario Congiusta (padre di Gianluca, ucciso a Siderno nel 2005), Liliana Carbone (madre di Massimiliano assassinato nel 2004 a Locri) e Deborah Cartisano (figlia di Lollò, sequestrato e ucciso a Bovalino il 22 luglio di 15 anni fa), Ciccillo Gatto (fratello di Rocco), la famiglia di Celestino Fava e gli amici di Nino Moio (uccisi a Palizzi nel 1996) e gli Invece (la band che s’è vista togliere il bassista Totò Speranza). Accompagnati da loro si sono messi in marcia daSud e Libera, il centro don Milani di Marina di Gioiosa e le coop nate sui terreni confiscati, migliaia di cittadini.
Il maresciallo Borrelli a Cutro, paese senza memoria
Quando tuo padre fa il carabiniere pensi che sia in pericolo ogni volta che indossa la divisa ed esce di casa. Quando lo fa in Calabria sai che il rischio è più alto. Se poi è un elicotterista hai più paura, perché alle insidie della missione contro le cosche devi aggiungere la fatalità del volo. Ma quando sta in vacanza e gira per il tuo paese in borghese e scambia due chiacchiere con gli amici in piazza no, non ci pensi proprio che un killer della ‘ndrangheta lo possa ammazzare.
E invece succede, proprio quando non ci pensi, perché un carabiniere onesto non si spoglia mai fino in fondo della divisa, dei suoi doveri. E’ per questo che è stato ucciso il maresciallo elicotterista dei carabinieri Francesco Borrelli, crotonese di Papanice. Il 13 gennaio 1982 stava a Cutro con la famiglia (lui lavorava al battaglione elicotteristi di Vibo Valentia) ed era nella piazza del paese con alcuni amici.
D’improvviso il precipitare degli eventi, racconta suo figlio Alfredo che con daSud e Libera sta facendo la Lunga marcia della memoria: in lontananza Francesco Borrelli vede un’automobile da cui spuntavano delle canne di fucile. Si volta dall’altra parte e vede sugli scalini del bar il boss Antonio Dragone. Si accorge che sta per scoppiare l’inferno, urla alla gente di mettersi in salvo, fa segno di tenere bassa la testa. La pioggia di fuoco destinata al boss fallisce l’obiettivo e colpisce in pieno il maresciallo. Francesco Borrelli muore mentre alcuni amici lo trasportano in ospedale, mentre il comandante dei carabinieri di Cutro, che stava dentro il bar, aveva abbassato la saracinesca per nascondersi (sarà poi espulso dall’Arma).
Per Francesco Borrelli i funerali di Stato e una medaglia d’oro al valor civile (non militare, nonostante fosse un carabiniere, perché non aveva sparato nessun colpo di arma da fuoco). Nessun colpevole, anche per lui, anche questa volta. Neppure una targa per ricordarlo a Cutro, paese colpevolmente senza memoria.
Peppe Valarioti, una vittima comunista
Fu Ucciso a Rosarno, nel ’79, dopo intimidazioni ai militanti e alla sede del Pci. E’ la notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, Giuseppe Valarioti, giovane professore di lettere con la passione per l’archeologia e la tessera del Pci di Rosarno in tasca (è il segretario di sezione) è al ristorante con i compagni: il partito ha vinto le amministrative e c’è da festeggiare. Finita la cena esce dal locale, arriva una pioggia di fuoco: Peppe Valarioti muore tra le braccia del suo compagno (e padre politico) Peppino Lavorato.
E’ la conclusione drammatica di settimane ad alta tensione, di minacce e intimidazioni, miste ad entusiasmo e, a volte, incoscienza. Si va avanti, anche se di notte gli ‘ndranghetisti tentano di incendiare la sezione del partito e distruggono le auto dei militanti. Anche se i manifesti elettorali vengono capovolti. Non strappati o coperti, capovolti.
Non è la stessa cosa. Il Pci para i colpi: comizi e manifestazioni, volantinaggi e porta a porta. Dopo la batosta del 1979 il Pci non si può permettere di perdere ancora. Le cosche però non possono accettare che si parli apertamente dei loro traffici e affari. Peppe e Peppino, i compagni della sezione lo sanno e vanno avanti: condannano i tentativi della mafia di controllare le cooperative agricole, difendono il territorio dalla ‘ndrangheta, dalla speculazione edilizia e dalle infiltrazioni.
Peppe è un passo avanti agli altri e non smorza i toni nonostante i compagni di partito, i parenti, la fidanzata gli chiedano prudenza. Lui ascolta ma va avanti e organizza un comizio contro gli ‘ndranghetisti, nella piazza principale di Rosarno, proprio il giorno in cui si svolgono i funerali della madre del boss Giuseppe Pesce. Da una parte Peppe e i suoi, dall’altra il boss e i suoi uomini: in mezzo la gente di Rosarno. Un affronto mai visto, a pochissimi giorni dalle elezioni. La sfida finale.
Vince il Pci, gli uomini dei clan non vengono eletti. La ‘ndrangheta reagisce e lo uccide. Durante la festa, perché sia chiaro per tutti. Peppino Lavorato terrà aperta la sezione del Pci di Rosarno. E dieci anni dopo diventerà sindaco del paese. Nel nome di Valarioti. Che non ha avuto giustizia.
Il sogno proibito di recuperare il murales s’è realizzato.
«Ce l’abbiamo fatta, nonostante difficoltà e insidie che provengono anche da dove non te l’aspetti – dice il presidente di daSud Alessio Magro – ma il viaggio è servito anche a toccare il cuore della gente, riportarla in piazza, con l’orgoglio di sentirsi calabresi. Sono le basi per provare a costruire una nuova e originale identità meridionale costruita attorno all’idea che si può dire no alle logiche perverse». Commenta Francesco Rigitano, responsabile di Libera Locride: «Abbiamo salvato un’opera altamente simbolica, che rappresenta la gente onesta: noi siamo cresciuti con il murales e il ricordo del movimento antimafia degli anni ’70. Vederlo scolorire era come perdere la nostra memoria. Adesso l’antimafia sociale ha di nuovo un punto di riferimento».
In tanti si sono messi in marcia in questi mesi. A partire da don Luigi Ciotti, primo firmatario dell’appello per salvare il murales promosso da daSud e comitato pro murales teatro Gioiosa. E poi politici, istituzioni, intellettuali, cittadini. E i giovani di Frame farm con il regista Michele Ambrogio che hanno documentato il viaggio, Alberto Gatto che ha girato un corto, Nessuno Tv e il manifesto che ha seguito quotidianamente la marcia, Round robin e Rivistaonline.com che hanno inviato una troupe, il centro don Milani che ha fatto da base, l’associazione MovImenti e la Locanda Atlantide di Roma, Legambiente. «Uno straordinario lavoro collettivo, che è stato un successo solo perché tutti hanno fatto la loro parte», dice Francesco Rigitano. Anche gli artisti hanno messo a disposizione il loro talento.
Nel concerto-evento, i Tetes de Bois hanno aperto le porte del loro Avanti pop a Giuseppe Cederna e Francesco Di Giacomo, gli Invece e Nino Racco, Peppe Voltarelli e Alessandro Ape. Una festa che ha fatto rumore in una regione ovattata. «Con la marcia abbiamo riscoperto tante nuove storie, storie di eroi normali. Dimenticate – conclude Alessio Magro – le scriveremo per dimostrare il valore dei calabresi».
A Gioiosa si arriva, da Gioiosa si riparte. Alla ricerca di nuovi percorsi antimafia, di nuovi linguaggi per raccontare storie finite nell’oblio di un Paese che non ha memoria.