‘Ndrangheta, latitante arrestato ai Castelli romani

Una notizia di oggi, che dimostra quanto siamo in ritardo a Roma nell’affrontare il tema mafie.

Dall’agenzia di stampa Omniroma: Alle prime ore dell’alba la squadra mobile di Roma ha arrestato, in un’operazione ai Castelli romani, un pericoloso latitante calabrese legato alla ‘ndrangheta.

Gli agenti della Squadra Mobile da tempo avevano ristretto le ricerche del latitante, Gesuele Ventrice, 24enne, nella zona dei Castelli Romani e in particolare ad Albano laziale. L’individuazione del nascondiglio è stata possibile dopo aver scoperto chi fosse il vivandiere del latitante, ossia tale Roberto Giordano, romano di anni 30. Questa mattina il blitz: l’uomo è stato bloccato in un supermercato dove si era recato proprio in compagnia del Giordano. Ventrice, noto con il soprannome “Gesù” per un tatuaggio su un braccio, era ricercato da circa tre anni per aver commesso una serie di rapine ai danni di istituti di credito ed esercizi commerciali della zona di Palmi. Malgrado la giovane età, è considerato dagli investigatori vicino alla cosca ‘ndranghetista dei Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria) e in particolare al coetaneo Francesco Bellocco. Quest’ultimo fu arrestato a Roma il 24 luglio 2012, in via Selva Nera insieme cugino 30enne Umberto Bellocco. Entrambi risultavano latitanti, dovendo rispondere del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.

‘Ndrangheta, arrestato Sestito. Ecco la storia di Renato Lio, il carabiniere ucciso

Il latitante Massimiliano Sestito in spiaggia a Palinuro

Il latitante Massimiliano Sestito in spiaggia a Palinuro

La polizia ha arrestato Massimiliano Sestito, 42enne pregiudicato. L’ha trovato in spiaggia, a prendere il sole, a Palinuro, in provincia di Salerno.
Era latitante dal 9 agosto scorso, colpito da un ordine di carcerazione dalla procura di Milano: non aveva rispettato la semilibertà.

Sestito, pluripregiudicato per omicidio, associazione a delinquere e traffico di droga, è considerato organico alla cosca Iozzo-Chiefari-Procopio attiva nel soveratese.

Nel suo curriculum criminale anche l’omicidio di un carabiniere, Renato Lio.

Ecco la storia di quell’omicidio, come l’abbiamo scritta nel libro “Dimenticati“.

 

“Una Lancia Delta bianca con un carico compromettente. Tanto compromettente che per evitare i controlli si può anche decidere di uccidere. Anche un carabiniere, se è necessario. La stagione estiva del 1991 per la Calabria è maledetta. Uccidono il giudice Antonino Scopelliti a Campo Calabro, ammazzano l’appuntato dei carabinieri Renato Lio a Soverato.
Il trentacinquenne Lio è in servizio in provincia di Catanzaro dal 1987 e la notte del 20 agosto è sulla statale 106, in una zona molto frequentata dai turisti. Sta facendo controlli di routine. Il posto di blocco è sistemato al bivio Russomanno. Vede una Lancia Delta bianca targata Milano provenire dal centro di Soverato. L’intuito gli dice che c’è qualcosa che non va, fa segno con la paletta, ordina lo stop. A bordo ci sono tre persone. Lio li fa scendere, chiede i documenti. L’uomo alla guida è inquieto, ma consegna la sua patente. Si chiama Massimiliano Sestito, deve ancora compiere vent’anni, viene dal Nord: è nato a Rho ed è residente a Pero, in provincia di Milano. Gli altri sono due cugini di Gagliato, si chiamano Vito e Nicola Grattà, hanno ventidue e diciannove anni e tardano a consegnare la carta d’identità ai carabinieri. Intanto Lio, mentre il suo collega si avvicina all’auto per il controllo radio con la centrale per vedere se ci sono dei precedenti, fa segno di iniziare una perquisizione dell’auto. Una decisione che non piace affatto a Massimiliano Sestito, che spinge il carabiniere, si sposta verso il cassettino dell’auto, lo apre, prende la sua pistola calibro 7.65 e spara in rapida successione tre colpi contro l’appuntato. Lo colpisce al cuore e a un polmone. Lio muore all’istante. Sestito non è soddisfatto, s’impossessa della pistola e della mitraglietta del sottufficiale, spara contro l’altro carabiniere, salta in macchina con i due Grattà e scappa a tutta velocità. L’altro carabiniere riesce a evitare i colpi, spara e colpisce una gomma. Dopo pochi chilometri, nella zona di Davoli, i banditi sono costretti ad abbandonare l’auto, che infatti viene subito trovata e sottoposta agli accertamenti. Intanto è scattato l’allarme e i carabinieri battono a tappeto tutta la zona del Soveratese e le principali strade della Calabria. Si scopre che Massimiliano Sestito è un pregiudicato di importante spessore criminale, che è una vecchia conoscenza dei carabinieri i quali l’hanno già arrestato due volte per traffico di droga e detenzione di banconote false ed è ricercato in Svizzera per una rapina. Emerge anche che la macchina è di proprietà di suo fratello Elvis, di poco più grande, ventun anni, anche lui residente a Pero.
Il vescovo di Cosenza, monsignor Antonio Trabalzini, celebra i funerali del sottufficiale a Castiglione Cosentino, dove il carabiniere ha una moglie, Anna De Luca, e due figli di nove e dieci anni. Partecipano commosse migliaia di persone.
Le indagini continuano spedite. Le ricerche disposte dal magistrato Mariano Lombardi sono serrate e non sono concentrate, naturalmente, solo in Calabria. Così, poche ore dopo l’omicidio i carabinieri forzano una porta blindata e fanno irruzione in una casa di Treviglio, nel bergamasco. È un covo di Massimiliano Sestito, acquistato da pochi mesi. Nel box c’è una Lancia Delta integrale bianca identica (anche nel numero di targa disegnato sul cartone) a quella trovata a Davoli. Sestito non c’è, ma non è stato un blitz inutile quello dei carabinieri. Dal doppio fondo di un armadio viene fuori un arsenale spaventoso: ci sono quattro pistole calibro 9 (con cinquecento proiettili), un fucile Winchester a pompa (con duecento cartucce), una mitragliatrice Uzi dotata di silenziatore (con duecento pallottole), venti coltelli e un blocchetto di assegni (uno dei quali già staccato per dieci milioni di lire). Viene perquisita nelle stesse ore anche una villa a Osio Sopra, sempre nel bergamasco, acquistata da una ventina di giorni da Sestito per duecento milioni. Non trovano nulla.
Intanto i carabinieri finalmente identificano le persone che erano a bordo della macchina. Identificano i cugini Grattà. Gli investigatori stringono il cerchio sul piccolo paese di Gagliato, che è il paese di origine di un nonno di Sestito. I Grattà sono incensurati, ma dopo una prima serie di controlli in paese risultano irreperibili: la conferma che nascondono qualcosa. Poche ore dopo, i cugini si costituiscono per chiarire la loro posizione. Vito e Nicola Grattà ammettono senza troppe resistenze di essere stati presenti al momento dell’omicidio, ma respingono l’accusa di essere dei complici di Sestito. Spiegano che non sapevano della pistola e giurano che l’azione omicida li ha colti di sorpresa e impauriti.
Continuano intanto le ricerche di Sestito. E come in tutti i noir c’è anche una telefonata anonima che ne segnala la presenza in Calabria, nella zona delle Serre. Le ricerche non vanno a buon fine. La telefonata, però, è attendibile, perché in un ristorante della zona i militari trovano la madre di Sestito, Vittoria Battaglia, di quarantaquattro anni.
Intanto nel 1992, ad aprile, il gip del tribunale di Milano rinvia a giudizio Sestito, ancora latitante, e dispone con decreto l’archiviazione nei confronti dei cugini Grattà, accusati di concorso in omicidio. Per il giudice sono stati semplici spettatori, colpevoli solo di essere stati a bordo di quella Lancia Delta. Il processo è fissato per il 28 ottobre e vede la costituzione di parte civile di Anna De Luca, la moglie del sottufficiale dei carabinieri.
A luglio finisce la latitanza di Massimiliano Sestito. I carabinieri lo trovano a Puos D’Alpago, in provincia di Belluno. Nell’irruzione i militari trovano anche armi, munizioni e numerosi documenti importanti. Insieme a lui, i carabinieri arrestano la madre con l’accusa di concorso in detenzione illegale di armi, munizioni e sostanze stupefacenti e il fratello minorenne. Ma è tutta la famiglia a finire nei guai. Passa appena un giorno e finiscono in manette anche il padre Antonio e l’altro fratello, Elvis. I carabinieri li trovano a Pero: sono accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e detenzione illegale di armi e munizioni. Anche per loro, la perquisizione rivela la presenza di una rivoltella 357 Magnum e di numerose munizioni.
Gli investigatori ritengono che la famiglia di Antonio Sestito, tranviere dell’atm di Milano, abbia organizzato un traffico di eroina con diramazioni anche in Veneto. Un processo parallelo. Quello per l’omicidio di Lio, invece, già fissato per il 28 ottobre, ha un rinvio: il 26 ottobre, appena due giorni prima del via, a Catanzaro si scopre che non ci sono giudici: «La situazione del nostro ufficio», spiega il presidente del tribunale, Giuseppe Caparello, «è drammatica. I giudici effettivamente in servizio sono sei su un organico di quindici». E nonostante i sacrifici non si riesce a stare dietro a tutti i processi. Il caso Lio si sovrappone con quello di un altro funzionario dello Stato assassinato in Calabria. Dice Caparello: «In questa situazione già grave dobbiamo garantire la prosecuzione di un processo importante come quello per l’assassinio del sovrintendete Aversa e della moglie». Finalmente il processo trova il suo giudice e inizia a Catanzaro. Sestito confessa l’omicidio, la condanna della Corte d’Assise di Catanzaro all’ergastolo è del 15 marzo del 1993. In appello, a dicembre, verrà ridotta a trent’anni”.

L’antimafia al Gay Village di Roma

Ieri sera abbiamo portato l’antimafia al Gay Village di Roma. Una bella serata per parlare di donne e ‘ndrangheta e presentare il libro “Onora la madre” di Angela Iantosca insieme a Ludovica Joppolo di Libera. E per chiedere ancora una volta di non considerare le mafie un problema lontano. La lotta alle mafie riguarda tutti, anche a Roma, anche al Gay Village.

Il 5 settembre 2013 al Gay Village

Il 5 settembre 2013 al Gay Village

Dalla Chiesa, altro che la retorica

“La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

“Che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi”.

“Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”

Carlo Alberto Dalla Chiesa, da vivo.
Era il 10 agosto 1982
Eppure c’è chi, davvero troppi, ancora oggi, con le mafie ci gioca, ci parla o ci fa affari. Pensando che sia utile chiudere gli occhi, concentrarsi su “ben altro”, pensare all’immagine dei territori. O magari facendo dibattiti improvvisati, pensando ossessivamente ai beni confiscati, agitando bandierine rassicuranti. Come se stessimo parlando di un fantasma da tenere lontano, di una coscienza da tenere a posto, di un posizionamento da perfezionare, di un’immagine da costruire. Come se le parole senza il pensiero, l’azione e l’assunzione di responsabilità possano avere un senso.

E invece l’antimafia è una cosa tremendamente seria, per nulla settoriale. Che ha a che fare con l’organizzazione economica e sociale di questo Paese (e non solo). Che ha a che fare con la politica e la società civile di questo Paese (e non solo). Che ci interroga da vicino, che mette in crisi le nostre certezze, che è strettamente connessa con la vita quotidiana delle persone, con le opportunità e i diritti. Con la libertà e la ricchezza. Con le nostre contraddizioni e le nostre debolezze. Con la nostra responsabilità.

Altro che la retorica delle commemorazioni, utili soltanto a celebrare il nostro essere buoni, il nostro essere impegnati, il nostro essere giovani, il nostro essere diversi. O anche il nostro essere uomini delle istituzioni