Zittire Carolina

Carolina Girasole

 

 

 

 

Stanotte hanno incendiato la casa delle vacanze di Carolina Girasole. Un’altra, l’ennesima intimidazione per l’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto anche se qualcuno in paese si affanna a dire che “non era per lei”.

In questi anni Carolina è stata isolata, attaccatta, minacciata, intimidita. Ha fatto comunque il suo lavoro. Per questo, suo malgrado, è diventata un simbolo dell’anti-‘ndrangheta. Era solo una brava e onesta sindaca.
Dopo cinque anni – e una sfortunata, e forse inopportuna, candidatura alle Politiche – s’è presentata alle elezioni comunali. Sola contro tutti. Contro il centrodestra e contro una parte consistente del centrosinistra che ha schierato un candidato che era sindaco nel 2002, quando il comune era stato sciolto per mafia. Sapeva che avrebbe perso, ma s’è voluta dare un’altra occasione, ha voluto dare un’opportunità anche ai suoi concittadini: continuiamo il percorso.

Ha perso, Carolina. Con lei ha perso la politica. E oggi il Pd nazionale e calabrese, quelli che stanno dentro il governo in primis, devono pronunciare ad alta voce le loro scuse. Per averla lasciata sola, per avere permesso che al centrosinistra accadesse tutto questo.
Però va detto: ha perso anche il paese, le persone che hanno scelto un modello e non un altro. Il modello politico e amministrativo che avevano fatto sprofondare Isola e che sostiene che la ‘ndrangheta non esiste, che parlarne fa male al turismo.

L’attentato di stanotte è l’ultimo regalo delle cosche. Per il passato, certo. Soprattutto per il futuro: Carolina Girasole sarà, nei fatti, l’unico consigliere di opposizione. E per qualcuno è bene che stia in silenzio.

 

Qui il video di un dibattito che l’anno scorso abbiamo fatto insieme a Carlo Lucarelli e Luigi Politano in Emilia Romagna.

 

#Femminicidio, per favore non semplificate

Dopo i fatti di Corigliano, e mentre il Parlamento discute della ratifica della Convenzione di Istanbul, daSud interviene per dire basta alle inutili semplificazioni e banalizzazioni. Con uno scritto di Angela Ammirati. Eccolo.

 

Fabiana, sedici anni, Corigliano Calabro, è l’ennesima vita che scompare per mano di un uomo violento, un ragazzo di un anno più grande di lei. Fabiana, come ha raccontato la madre, era una ragazza che aveva tutta la vita davanti, sogni, progetti e ambizioni da realizzare. E’ stata uccisa dal fidanzato per aver pronunciato un no.

Le dinamiche che hanno portato al suo omicidio appartengono al repertorio di un classico caso di femminicidio: il possesso, il disconoscimento del desiderio femminile da parte maschile, la chiusura e la solitudine di Fabiana. La compagna di scuola ha, infatti, dichiarato alla stampa “noi non l’abbiamo mai capita”. Niente di straordinario, perché, spesso, è difficile penetrare nel mondo di una donna che vive una relazione violenta.

L’opinione pubblica e i media se, da un lato, hanno denunciato e descritto l’omicidio di Fabiana, come un caso di femminicidio e non come un raptus di natura passionale, dall’altro, hanno rivelato una certa miopia nel volere trovare un’ulteriore chiave di lettura nella cultura di provenienza del ragazzo. Alcuni neurologi e psichiatri intervistati in trasmissioni televisive e radiofoniche hanno interpretato il gesto del fidanzato come un atto di violenza intriso di “tribalismo calabrese”, così alcuni articoli di giornalisti e opinionisti si sono concentrati sulla componente “mafiosa” della cultura calabrese.

Come è successo nei confronti di migranti, anche nel caso di Fabiana, la violenza di genere rischia di essere utilizzata per costruire discorsi pubblici che insistono sulla minaccia incombente della diversità e dell’inferiorità culturale. Il migrante che commette violenza è lo straniero, il diverso, colui che con la sua presenza mette in pericolo l’identità unica e monolitica di una supposta comunità (etnica, nazionale, morale). Nel caso dell’omicidio di Fabiana, invece, la violenza è originata dall’alterità calabrese, portatrice di una cultura arretrata e subalterna che spinge ineluttabilmente a usare violenza nei confronti delle donne.

Questa narrazione “convenzionale” del femminicidio rischia di costruire a livello simbolico e discorsivo la pericolosità sociale di categorie o mondi etnici e culturali, con l’effetto di distogliere lo sguardo dalla radice trasversale e politica della violenza di genere.
Come associazione daSud, impegnata nella costruzione di un nuovo immaginario antimafia e antisessista, prendiamo distanza politica da simili interpretazioni che eludono il cuore del problema: nel nostro paese, le donne muoiono perché donne, indipendentemente dalla razza, dall’etnia e dalla cultura dell’uomo violento.

Inoltre riteniamo che, nel racconto del femminicidio, fare riferimento alla specificità culturale di un territorio tradisca un’interpretazione erronea delle culture, concepite come monoliti e non come “processi” che hanno nel cambiamento, nella revisione e reinterpretazione di pratiche la loro ragion d’essere.

Il Femminicidio è un fenomeno complesso, non dice solo della violenza estrema che pone fine alla vita di una donna, ma di una violenza sistemica e trasversale che pervade tutti gli “ambiti vitali”, dalla famiglia, alla scuola, all’organizzazione sociale.

La ratifica della Convenzione di Istanbul, da ieri in discussione alla Camera, segna un traguardo fondamentale perché assume la violenza alle donne come un fatto strutturale e pervasivo della nostra società. Passaggi decisivi ma non definitivi. L’impegno delle Istituzioni deve essere quello di portare al centro del dibattito la soggettività delle donne e la piena libertà femminile, per riaprire uno spazio oscurato dalla nube retorica della “dignità delle donne” e per avviarsi verso un processo di elaborazione collettiva della violenza di genere che chiama in causa non solo la pluralità dei soggetti coinvolti per il suo contrasto (istituzioni, operatori antiviolenza, magistrati, medici, ect.) ma la società civile tutta”. Nessuno può esimersi da questo compito che impone, in primo luogo, di mettere in discussione l’ordine asimmetrico delle relazioni tra i generi oggi così profondamente connesso alla “crisi del maschile”, chiave ineludibile per uno sradicamento della cultura del dominio.

Presentazione del libro “Passaggio di testimone. Undici giornalisti uccisi dalla mafia e dal terrorismo”

passaggio di testimone copertina 1Presentazione del libro “Passaggio di testimone. Undici giornalisti uccisi dalla mafia e dal terrorismo” ( Navarra Editore – 2012, Collana Fiori di campo). I diritti d’autore del libro saranno devoluti alla rivista Casablanca – storie delle città di frontiera, consultabile sul sito www.lesiciliane.org.

La serata sarà inoltre un’occasione per presentare i volti e le iniziative che l’Associazione Antimafie “Rita Atria” – Presidio di Roma ha in programma per i mesi a venire tra cui la partecipazione attiva al Comitato No Muos – Roma (presente con una mostra fotografica NO Muos) oltre che per ascoltare attraverso le parole dei/lle giornalist* di Errori di Stampa, storie di chi ogni giorno, nonostante le limitazioni della precarietà, si spende sul territorio per raccontare e informare a schiena dritta.

MODERA: PIETRO ORSATTI (giornalista, scrittore e regista)

INTERVENGONO:

CLAUDIO FAVA (deputato, giornalista e scrittore)
MICHELE GAMBINO (giornalista, saggista)
SERGIO NAZZARO (giornalista, scrittore)
ULISSE (testimone di giustizia, presidente onorario Associazione Antimafie “Rita Atria”)
GRAZIELLA PROTO (giornalista, fondatrice e direttrice della rivista “Casablanca”)
DANILO CHIRICO (giornalista, scrittore)

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“Chi ha in mano un testimone – scrive nella prefazione Salvo Vitale, curatore della collana Fiori di campo, cui il libro stesso appartiene – ha una grave responsabilità: non perderlo, non farlo cadere, essere degno dello sforzo del compagno che glielo ha passato, anzi, tentare di far meglio. Le staffette vengono chiuse dagli atleti più veloci. Il passaggio implica un gioco di squadra, una sinergia all’interno di un percorso comune, ma soprattutto una responsabilità individuale”.

Sinergia, gioco di squadra, percorso comune e responsabilità individuale. Raccogliere il testimone e la testimonianza non sembra affatto un’operazione facile, ma estremamente necessaria specie quando la democrazia stessa è minacciata. Raccogliere il testimone e continuare la corsa diventa quindi un impegno e una responsabilità civile cui nessuno può esimersi. La corsa non è conclusa, il passaggio è ancora in corso. A ciascuno di noi spetta questo compito nella quotidianità, continuando a correre, senza fermarsi.

Undici storie, undici persone, undici testimonianze quelle raccontate nel libro edito da Navarra. Undici giornalisti morti per aver scritto, uccisi per aver raccontato. Vittime delle mafie e del terrorismo. Morti per aver voluto, attraverso il giornalismo, svolgere il compito di molesto watch dog del potere oltre che quello di tenere alta l’attenzione su temi e problemi che, sebbene sotto gli occhi di tutti, si preferisce ignorare perché scomodi o rischiosi. Un giornalismo, quindi, che vuole avere un riscontro nella vita sociale del Paese, passando anche per il risveglio critico ed etico della coscienza sociale. A raccontarli altri giornalisti e giornaliste, colleghi e colleghe impegnati su quegli stessi territori, in una sorta di staffetta dell’informazione a schiena dritta.

Un tentativo, quello del libro e di questa presentazione, di andare oltre la vuota retorica celebrativa e guardare all’esempio di quei giornalisti non come martiri eroici di un’informazione che resiste ma come un invito a non rendere vano il sacrificio e l’esistenza stessa di chi ha deciso di intraprendere il mestiere di cronista “in quel modo infaticabile, quotidiano, di raccontare quello che accadeva, di documentare le storie di ordinaria miseria, di spiegare, mostrare, istruire” all’insegna di quel “concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo” di Giuseppe Fava.

Un invito a non rimanere in silenzio, a non chiudere gli occhi e a non voltare le spalle che coinvolge non solo gli operatori dell’informazione ma tutti noi, nel quotidiano. Testimoni e costruttori/trici di Giustizia come Rita Atria, cui non a caso è intitolata la nostra Associazione, Ulisse, che ne è presidente onorario, e sua moglie, come quanti e quante ogni giorno denunciano atti criminosi e illegalità.

Conferenza “la cultura che si oppone alle mafie” – Video

Video della conferenza su “la cultura che si oppone alle mafie“, del 18 maggio 2012, tenuta da Giulio Cavalli autore di teatro civile; Danilo Chirico giornalista e scrittore.
Si tratta del penultimo incontro del corso di formazione “Legalità, cittadinanza e istituzioni dello Stato nell’ambito della lotta alle mafie”. 
Gli incontri, in programma fino a giugno 2012, sono stati organizzati da Ascrid insieme alla Fondazione Basso e si inseriscono all’interno di un progetto della Tavola Valdese.

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