Zingaretti alla Regione e Riccardi al Campidoglio. Il risiko nel Pd e il rischio rottura a sinistra al Comune

Il presidente della Provincia viene spinto verso la poltrona della Polverini lasciando la sua corsa per il Campidoglio al ministro della Cooperazione. Un quadro complesso che diventa probabile se alla Regione si voterà a dicembre. Cambiano gli equilibri, il centrosinistra si sposta verso l’ala moderata e a sinistra si va verso la rottura che porterebbe alla candidatura a sindaco dell’assessore provinciale Massimiliano Smeriglio. Oggi la direzione regionale del Pd e sabato l’assemblea nazionale con Bersani. Dentro questo arco di tempo si gioca una partita che riguarda i romani e i cittadini del Lazio. Ma che ha anche importanti risvolti nazionali. E Alemanno: “Non mi dimetto, hanno paura di me”

A Nicola Zingaretti viene chiesto il sacrificio di mollare l’ormai avviatissima corsa al Campidoglio per candidarsi a presidente della Regione, al ministro Andrea Riccardi che non ne vuole sapere di fare il governatore viene proposta l’opzione sindaco. Su questo schema si lavora dentro un pezzo significativo del Pd per comporre il quadro in vista delle elezioni comunali e regionali (tenendo l’occhio puntato sugli assetti del governo nazionale).

ZINGARETTI – A poche ore da una delicatissima direzione regionale del democratici, la situazione è molto complessa (c’è da decidere anche su eventuali ricandidature dei consiglieri regionali uscenti) e soltanto Nicola Zingaretti potrebbe sciogliere alcuni dei moltissimi nodi. La candidatura del presidente della Provincia, infatti, è il nome che potrebbe ridimensionare le ambizioni dei tantissimi che in queste ore ambiscono al posto di Renata Polverini e soprattutto è il nome che potrebbe trovare una quadra per portare il centrosinistra alla vittoria. Un’ipotesi “che si può valutare” soltanto se la data del voto è quella di dicembre. Una data che lo stesso Zingaretti ha invocato negli ultimi giorni (quando la sua candidatura non era ancora in campo, per la verità) di fronte allo sfascio del centrodestra. Se si vota presto, si ragiona in queste ore a Palazzo Valentini, e a “Nicola chiedono, cosa che non hanno ancora fatto, di risolvere un’emergenza” una sua candidatura potrebbe essere presa in considerazione, certamente “sarà valutata seriamente”.

LA DATA DELLE ELEZIONI – Naturalmente la data delle elezioni non è nella disponibilità del presidente della Provincia e neanche del Partito democratico che – ZIngaretti o no – continua a spingere per “fare presto”. La scelta sta invece nelle mani di Renata Polverini e del ministro dell’Interno Cancellieri. Sarà su questo binario che verrà presa la decisione. E c’è da giurare che la governatrice premerà per una data che sia la più congeniale possibile per il suo futuro politico (che sarà nazionale ma non si capisce bene ancora dentro quale quadro e dentro quali equilibri). E la Cancellieri nella scelta finale dovrà tenere conto sia delle esigenze di bilancio (l’election day consente un consistente risparmio economico) sia delle esigenze politiche dei vari schieramenti in campo.

IL COMUNE – In questo quadro entra in gioco anche il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi. Da giorni il centrosinistra cerca di coinvolgerlo per candidarlo alla poltrona di governatore del Lazio. Lui in tutte le salse ha fatto sapere di non essere interessato: pare non abbia nessuna intenzione di occuparsi della patata bollente sanità. Ma nel Pd e nel mondo della chiesa che guarda al centrosinistra non hanno perso le speranza e allora è partita l’offensiva che potrebbe portare il leader della comunità di Sant’Egidio verso una candidatura al Campidoglio. Una ipotesi che Riccardi – con atteggiamento da politico navigato – invece non ha mai smentito categoricamente. E una ipotesi che si rende possibile se, e solo se, Nicola Zingaretti metterà da parte il lavoro compiuto negli ultimi quattro anni (da sempre praticamente lavora per diventare sindaco) e si tufferà a capofitto verso la Regione.

UNA SCELTA CHE CAMBIA GLI EQUILIBRI – La coppia Zingaretti alla Regione e Riccardi al Comune non è senza conseguenze politiche, naturalmente. Riccardi – all’interno di un quadro complesso che guarda al mondo della chiesa cattolica e al governo di Mario Monti – è un nome che rimette in discussione gli equilibri. A tutti i livelli. Cosa farà l’Udc, seppure reduce dall’esperienza nel governo Polverini? E se dovesse sostenere l’ipotesi di centrosinistra (ma più spostata al centro rispetto a Zingaretti) al Campidoglio sarebbe poi più complicato per Casini spiegare per quale ragione non costruisce un asse di ferro anche sulla Regione e soprattutto a livello nazionale (nonostante il botta e risposta di ieri con Bersani). In pratica lo schema su cui lavora sin dal primo giorno Massimo D’Alema, un pezzo dei veltroniani, e tutta l’area di Fioroni ed Enrico Letta. In queste ore, se non dovesse accettare Riccardi, anche per il Comune si fanno i nomi di Roberto Morassut e Giovanna Melandri (entrambi veltroniani).

LA ROTTURA A SINISTRA – Un quadro che cambia le relazioni anche a sinistra. La candidatura di Nicola Zingaretti al Comune è servita in questi anni a costruire un quadro di centrosinistra chiaro (e in fondo anomalo e in discontinuità rispetto al quadro nazionale sempre più nebuloso) e appena una settimana fa i segretari romani di Pd, Sel, Idv e Psi avevano annunciato in pompa magna la definizione del quadro dell’alleanza. Non solo: ancora stamattina i dirigenti romani del centrosinistra lavoravano alla definizione delle primarie convocate per il 26 gennaio. Se davvero Zingaretti andrà alla Regione diventa probabile una rottura con l’ala sinistra della coalizione sul Campidoglio. “Non staremo mai in un alleanza con il ministro Riccardi candidato sindaco. Questo significherebbe la riproposizione del ‘montismo’ a Roma, una prospettiva politica che Sel non può accettare. IN questo caso, dunque, presenteremo un candidato nostro”, dice il dirigente di Sel Gianluca Peciola. E subito prende quota la candidatura a sindaco dell’assessore provinciale al Lavoro Massimiliano Smeriglio, uomo forte di Sel, che è tra i maggiori sostenitori dell’ipotesi Zingaretti. E che potrebbe raccogliere con sé larga parte della coalizione di partiti e soggetti sociali che stavano dentro la cosiddetta “coalizione Acea” che s’era battuta (vincendo) contro la privatizzazione dell’acqua in città.

L’INCOGNITA ALEMANNO – In questo quadro complesso, un ruolo centrale lo gioca – seppure indirettamente – il sindaco Gianni Alemanno. Che ha grandi difficoltà ad approvare il bilancio e che vorrebbe l’election day tra Comune e Regione. Così in queste ore prende quota (e viene smentita senza troppa convinzione) l’ipotesi che Alemanno scelga di dimettersi e di favorire le elezioni anticipate anche al Comune. Una valutazione tutta politica e di coalizione (quale?). Da cui però dipende in parte anche il destino del centrosinistra. “Dopo il mercoledì delle ceneri stanno inventando il mercoledì delle mie dimissioni – dice il sindaco Alemanno – ribadisco che non è vero, e che i rappresentanti del centrosinistra e tutte le persone che cercano di smontare la mia candidatura hanno solo paura. La mia impressione sincera è che quasi si teme che io arrivi fino in fondo e quindi si fa di tutto per scongiurare la mia candidatura”. “In caso di election day anticipato, le emergenze diverrebbero due: regione e comune. A quel punto, Zingaretti potrebbe continuare la sua corsa al Campidoglio e si riaprirebbe la partita Regione. Le prossime ore sono decisive. “Entro venerdì” si dovrebbe capire il destino di Zingaretti e del centrosinistra. Anche perché sabato c’è l’assemblea nazionale del Pd. E tutte le tessere del mosaico dovranno trovare posto. O per il centrosinistra, che finora aveva ipotecato la doppietta di vittorie, saranno guai.

 

Ater, membro cda attacca: “Vendite illecite”

ater-lungotevere-tor-di-nona_fullLo scandalo potrebbe scoppiare a proposito delle 1756 case vendute tra il 2004 e il 2006: semplificazioni e accelerazioni previste dalla Regione avrebbero favorito centinaia di persone che “senza diritti” acquistando case popolari “a prezzi irrisori”. L’accusa pesantissima è del consigliere Folgori: “Ho chiesto le liste delle compravendite, ma mi vengono negate. Forse è un elenco che scotta”. Nel mirino il presidente Prestagiovanni e il dg facente funzioni Bellia, che replicano: “Abbiamo rispettato la legge”

Fuoco amico – e accuse pesantissime – sull’Ater di Roma. Secondo un consigliere d’amministrazione centinaia di case popolari sarebbero state vendute “senza” che gli acquirenti ne avessero “diritto e a prezzi irrisori” attraverso la delibera regionale 571. Un caso che potrebbe riguardare 1756 case, vendute tra il settembre del 2004 e il giugno del 2006, grazie alla complicità di un notaio (poi radiato dall’albo) e con la collaborazione di un dipendente Ater. Un caso su cui è a lavoro una commissione d’indagine interna.

A sollevare il polverone è il consigliere d’amministrazione (area centrodestra) della stessa Ater Enrico Folgori. Che spara a zero contro il presidente dell’ente Bruno Prestagiovanni (anche lui di area centrodestra) e il direttore generale facente funzioni Massimo Bellia. Che si difendono: “Non potevamo che applicare la delibera 571”, perché era operativa. E se ci sono stati degli illeciti “sarà la commissione di indagine che noi abbiamo voluto a chiarirlo: i risultati dovremmo averli entro ottobre”.

L’ATTACCO DI FOLGORI – Quale che siano i fatti – e quali che siano le ragioni che hanno spinto Folgori a sollevare il caso – pesa in una città come Roma (con l’emergenza abitativa ai massimi livelli) che non ci sia la massima trasparenza sulla vicenda che riguarda 1756 abitazioni e su eventuali privilegi che sono stati applicati. Attacca il membro del cda: “L’Ater Roma sta vivendo una crisi oramai cronica, causata da passate gestioni molto allegre, caratterizzate da pressappochismo e mancanza totale di managerialità”. L’accusa è di avere “sempre pensato alle Ater come aziende da politicizzare per il proprio tornaconto personale”. Dice Folgori: “Ad oggi le imposte vengono determinate senza neanche avere lo straccio di un bilancio approvato, peraltro bocciato dal collegio dei revisori nella fase preliminare; vengono bandite gare senza la relativa copertura, si utilizzano fondi di decine di milioni di euro destinati per stanziamenti di ordinaria amministrazione per coprire i buchi lasciati da cattive gestioni”. “A tutto ciò è ora di dire basta – aggiunge – proporrò nelle prossime ore un crono-programma dettagliato all’attenzione dei colleghi del Cda” per il rilancio strategico economico dell’Ater.

“TROPPO ALTI I COSTI DELLA PRESIDENZA” – Folgori suggerisce di valorizzare il patrimonio con la spending rewiew visto che il patrimonio vale “almeno 20 miliardi di euro”, ma chiede che questa fase di rilancio escluda “coloro che hanno contribuito allo sfascio attuale”. E affonda i colpi contro Prestagiovanni: “Credo che sia fondamentale partire da una spending review interna che non può non tenere conto dell’enorme costo annuale della presidenza: alla segreteria personale, con 3 dipendenti interni e altri 4 esterni che costano solo loro all’Ater Roma circa 220.000 euro annue, in più dobbiamo contare il portavoce personale da 3.600 euro mese, l’auto blu con autista oltre ad una voce di bilancio personale per spese di rappresentanza. Chiedo al presidente Prestagiovanni di tagliare immediatamente queste spese che costano all’Ater Roma circa 400.000 euro all’anno senza contare il suo stipendio che mi risulta essere molto elevato”. Su questo Prestagiovanni, reduce da un piccolo intervento chirurgico, spiega a Paese Sera: “I costi non sono quelli indicati da Folgori, per esempio sul portavoce. Forse qualcuno nel cda voleva l’assunzione di due addetti stampa – aggiunge – comunque quando sono arrivato come commissario ho portato con me alcune persone per fare meglio il mio lavoro”. “Sui costi della presidenza – chiarisce – farò presto delle osservazioni”.

IL CASO DELLA 571 – Poi Folgori cambia obiettivo e prende di mira il direttore generale facente funzioni, Massimo Bellia, spiegando di avergli chiesto da circa 3 mesi “di avere la lista delle compravendite effettuate dall’Ater Roma che hanno beneficiato della delibera regionale 571, ovvero la stessa utilizzata da un dipendente dell’azienda per l’acquisto di un immobile di proprietà dell’Ater Roma ad un prezzo irrisorio”. Un caso che ha provocato la nascita di una “commissione di indagine interna” e che secondo il consigliere avrà anche delle conseguenze giudiziarie. In pratica, secondo il membro del cda, la legge 571 non doveva essere applicata per centinaia di casi visto che si tratta di una delibera “vergognosa” che persino “Il Consiglio del Notariato ha giudicato non applicabile” diffidando “tutti i notai” dall’applicarla. Un solo notaio ha ignorando la diffida (oggi è stato radiato “ma non so se per questa ragione”, precisa Bellia) “coadiuvato da un assistente – insiste Folgori – che sembra sia parente stretta di un personaggio dell’ufficio vendite dell’Ater, avvantaggiando cosi centinaia di persone che hanno in questo modo compiuto un illecito”.

“LA LISTA CHE SCOTTA” – Attacca ancora Folgori: “Ebbene ad oggi di quella lista non c’è nessuna traccia: la direzione generale – accusa – mi dice che il dirigente preposto a tale compito si rifiuta di consegnarla. Chi si vuole coprire? Chi sono i ‘fortunati’ beneficiari di tale vantaggio, quello di aver acquistato un immobile delle case popolari senza averne diritto e a prezzi irrisori? Evidentemente è una lista che ‘scotta’ a tal punto che mi hanno segnalato la presenza di un dirigente così zelante – sottolinea – da penetrare negli uffici dell’azienda addirittura il 15 agosto scorso per trafugare chissà quali misteri. Ho chiesto alla direzione di recuperare le registrazioni del sistema di video sorveglianza per identificare il dirigente zelante e assicurarlo alla giustizia”. Una storia, quella del 15 agosto, “che mi fa sorridere” spiega il presidente Prestagiovanni. Una storia “che non è vera”, aggiunge il direttore generale Bellia “visto che il nostro sistema di allarme e l’istituto di vigilanza, dopo verifica, ci hanno detto che nessuno era dentro gli uffici quel giorno”.

LA REPLICA – “La delibera 571 andava applicata perché fino a quel momento non era stata osservata. Si sarebbe potuto fare un ricorso al Tar che non spettava a noi. Scaduti i termini, non ci restava che applicarla”. E’ categorico su questo il presidente Prestagiovanni: “In ogni caso è a lavoro una commissione d’indagine che accerterà eventuali responsabilità”. Quanto agli atti di gestione, spettano al direttore generale al quale il presidente dice di avere chiesto lumi. Bellia: “La delibera doveva essere applicata – sottolinea – forse conteneva degli aspetti di non liceità, ma non è stata impugnata. Per cui, come ci ha detto anche l’avvocatura a cui avevamo chiesto il parere, non potevamo fare altro che applicarla”. E spiega: “La 571 serviva ad avviare un processo di accelerazione delle procedure di vendita – sottolinea – anche se non si trattava degli assegnatari, per situazioni particolari. Era un modo per fare fare cassa alle Ater che erano in difficoltà economiche”. Una procedura, ferme restando le due normative 560 e 42, che “anche in noi aveva suscitato delle perplessità e che pure siamo stati costretti ad applicare”. Insomma, secondo presidente e dg, se sull’applicazione obbligatoria ci sono state delle irregolarità (“se per tutti la delibera è stata applicata nello stesso modo”, precisa Bellia) sarà la commissione d’indagine interna (composta da tre dirigenti interni e due avvocati esterni) a stabilirlo “entro la fine di ottobre”. Due i casi da cui si è partiti: un dipendente che ha acquistato con la 571 e una che ha acquistato un appartamento che era stato occupato dalle figlie.

“LA LISTA CHE NON ESISTE” – La nota di Folgori di oggi non arriva certo come un fulmine a ciel sereno. Il dg se l’aspettava. Eppure “il 30 agosto ho risposto al consigliere – chiarisce – dicendo non che i dirigenti si rifiutano di fornire la lista, ma che la classificazione dei locali venduti viene fatta non in base alla delibera quanto piuttosto secondo la legge 560 o 42. E’ organizzato così il sistema informativo. Quindi bisogna aprire tutte le pratiche e verificare su tutto il venduto quando è stata applicata la delibera”. Per questa ragione, sostiene Bellia, “la lista non esiste”, le verifiche della commissione “sono fatte a campione” e “noi stiamo lavorando per l’elaborazione complessiva dei dati”. Insomma, “nessuno vuole tenere nascosto niente”. Adesso le polemiche. E la necessità di rilanciare l’Ater. Poi i risultati dell’indagine e l’eventuale intervento della magistratura.

Ricominciare da Paestum

A 36 anni dalla storica assemblea femminista di Paestum le donne tornano in Campania (dal 5 al 7 ottobre) per discutere di crisi e genere. Ci sarà anche un gruppo di 30enni romane: questo è uno stralcio del loro documento. Desideriamo confrontarci a Paestum, ma lo facciamo con le nostre parole e le nostre urgenze. Partiamo da noi, trentenni di questi anni, dalla precarietà lavorativa ed esistenziale, dalle nostre condizioni materiali di esistenza. Dalla nostra soggettività politica investita dalla crisi, dalla sua carica ideologica, dai suoi effetti patologici che performano la materialità delle nostre vite, le nostre percezioni, i sentimenti, il modo di guardare al futuro. Alla negatività della crisi ci sottraiamo mettendo al centro il “desiderio di politica” e la pratica politica delle donne come politica diffusa nei tempi e negli spazi del quotidiano. Partire dalle donne, dalla loro vita, dalle loro esperienze ed elaborazioni, può costituire un terreno comune per ripensare all’alternativa. Tuttavia siamo consapevoli che la sua costruzione passa anche attraverso un conflitto tra femministe di diverse generazioni. Un conflitto che vogliamo nominare e aprire perché di frequente lo viviamo. Se la rappresentanza è in crisi, ne va colta l’opportunità spostandosi dal piano della politica istituzionale, come luogo dove si prendono decisioni, al piano della politica diffusa e agita dal basso. Partiamo allora dal lavoro prima di tutto. Dalla sua ridefinizione. Il lavoro che per tante delle generazioni trascorse è stato luogo di autorealizzazione, ricerca e autodefinizione, per noi ha significato mancanza, sfruttamento, annullamento della distinzione fra tempi di vita e di lavoro.Liberare il lavoro di tutte e tutti deve assumere oggi uno spostamento che toglie il lavoro dal centro – in un atto che non è di perdita ma di potenziamento. È una liberazione che passa dal superamento del modello di stato sociale disegnato addosso al maschio, bianco, operaio, lavoratore a tempo pieno, cittadino di diritto dello stato sociale che le donne non hanno mai pienamente abitato e che ora è entrato in crisi. Il reddito di esistenza è una delle nostre battaglie. Siamo consapevoli che la libertà non si esaurisce nell’acquisizione dei diritti, cosi come non ci sfuggono le molteplici forme in cui agisce e si rinnova il patriarcato. L’aumento dei casi di femicidio stride solo apparentemente con la libertà conquistata dalle donne. Vogliamo dunque ripensare le relazioni tra donne e tra donne e uomini, in un’ottica nuova, alla luce di tutti i mutamenti che complicano il desiderio maschile e femminile.

 

Elezioni, quote di genere e di generazione

Siamo nel Paese che discute della candidatura a premier del 76enne Silvio Berlusconi e del possibile governo bis di un signore, Mario Monti, che a marzo compirà 70 anni, in cui per i giornali è una notizia (sic!) la decisione di non ricandidarsi dell’ultraottantenne presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Siamo nel Paese in cui Giorgio La Malfa è deputato dal 1972 e in cui la trasmissione tv più nuova la conduce Pippo Baudo (classe 1936). Siamo nel Paese in cui un dibattito viene percepito come credibile solo se lo lanciano personaggi come Eugenio Scalfari (classe 1924) e il festival della politica come serio solo se parla Emanuele Macaluso (89 anni). Siamo nel Paese in cui Assunta Almirante (87 anni) è sui giornali tutte le settimane e Giorgio Albertazzi, a un passo dal compiere 90 anni, partecipa (vincendoli) ai bandi pubblici per la gestione di festival teatrali.

Storie di personaggi che (quasi tutti) hanno dato molto. E che adesso, se davvero hanno a cuore il destino dell’Italia, devono mettersi a disposizione del cambiamento. Davvero, e cioè mettendosi da parte. Un fatto che presupporrebbe lungimiranza e intelligenza di una classe dirigente che, complessivamente, è delegittimata dai fatti. Un fatto che presupporrebbe nello stesso tempo grinta e capacità di protagonismo da parte dei più giovani.

Dopo la crisi deprimente che ha travolto la giunta e il consiglio regionale del Lazio, dopo l’assalto rozzo di Beppe Grillo e furbissimo di Matteo Renzi, è partita una discussione – ancora parziale, soprattutto ipocrita – sulla necessità di cambiare il Paese rinnovando la classe dirigente. Le contestuali elezioni per il Campidoglio, per la Regione e per il Parlamento offrono una straordinaria occasione. Che, come cittadini, non possiamo sprecare.

Per questo i giovani romani e laziali devono ritrovare la speranza, lanciare la sfida e imporsi sulla scena pubblica. Contemporaneamente, però, i partiti si impegnino a fare la propria parte. Praticando la discontinuità, non enunciandola. Intervenendo in maniera decisa sulla questione di genere e su quella generazionale.

Ecco allora due proposte, semplici semplici, rivolte ai partiti (anche per le Politiche), ai candidati a sindaco – in primo luogo Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti – e agli aspiranti governatori (che speriamo davvero siano scelti con le primarie). Due impegni che potrebbero essere assunti già in campagna elettorale. Nella compilazione delle liste si tenga conto di una quota di genere (per il 50%) e di una quota di generazione (ci sia una metà di candidati under 40). Gli stessi criteri siano adottati per la scelta degli assessori. Non si tratta naturalmente di avere una particolare passione per le quote (anzi!), né di cedere al banale ed estetico giovanilismo, quanto piuttosto di raccogliere il meglio delle sfide che vengono dalla società, dalle persone in carne e ossa (magari non quelle cresciute con il mito di Corneliu Codreanu). Piccoli gesti, per grandi cambiamenti. O la politica resterà travolta da se stessa. Per sempre.

Se la Polverini ha mentito

“Ora dirò tutto ciò che, per senso dello Stato, non ho reso pubblico. Ho visto cose allucinanti”. Ha detto proprio così Renata Polverini ieri sera nel corso della rancorosa conferenza stampa durante la quale ha annunciato le sue dimissioni. Una dichiarazione pesante, tra tante per la verità in queste ore. Che racconta alcune cose del passato, del presente e anche del futuro della governatrice dimissionaria.

LA POLVERINI HA MENTITO – La prima cosa che dicono queste parole è che Renata Polverini ha mentito. Lo ha fatto ieri o lo ha fatto durante l’intera scorsa settimana. Dobbiamo credere alla Renata Polverini che dice di avere vissuto con disagio nel Sistema-Regione per due anni e mezzo e di essere a conoscenza da tempo delle peggiori malefatte dei consiglieri regionali del Pdl o piuttosto dobbiamo dare credito alla governatrice che per una settimana ha interpretato (emblematica in questo senso è stata la sua apparizione a Piazza Pulita su La7) la parte di chi non s’è mai accorta di nulla di quello che le accadeva intorno? Nessuna delle due alternative è tranquillizzante.

IL SENSO DELLO STATO – Ma dicono anche un’altra cosa importante le parole della Polverini. Proprio mentre si appella a un presunto senso dello Stato, la governatrice dimostra di farne un uso perlomeno singolare. Se un cittadino (prima ancora che un amministratore) è a conoscenza di “cose allucinanti” (sprechi o reati che siano) ha il dovere di denunciare alla magistratura o in consiglio regionale ciò che sa. In due anni e mezzo l’ex sindacalista dell’Ugl non lo ha mai fatto. Se invece davvero è stato il senso dello Stato a convincerla a non parlare, non si capisce (o forse sì) perché oggi abbia deciso di agitare come una clava la minaccia della sua testimonianza. Il senso dello Stato non si richiama a giorni alterni.

LA SCONFITTA – Altri due elementi, tutti politici, emergono dalla gestione della crisi. La governatrice ha perso in malo modo la prova muscolare lanciata in consiglio lunedì scorso. Il tentativo di avviare con il suo governo (“pulito”, rivendica) una stagione di riforme si è infranto in maniera maldestra dopo appena sette giorni. Segno dell’inadeguatezza della sua strategia che s’è scontrata con le resistenze del Pdl, con l’incostistenza del suo movimento, con gli infortuni di immagine (come la foto che la ritrae sorridente alla festa di De Romanis), con la perdita del sostegno dei vescovi che pure tanto si erano spesi per farla eleggere appena due anni e mezzo fa.

LA VOGLIA DI RISSA – Il secondo elemento riguarda invece la voglia matta che Renata Polverini sembra avere di scatenare una rissa per affrontare la pur aspra polemica politica. A questo sembrano dovuti, per esempio, gli attacchi ai consiglieri regionali accostati a “tumori” o appellati come “indegni”. Non è solo una questione di forma o di stile (l’ex sindacalista ci ha abituati sia all’eleganza nel salotto di Ballarò sia alle perforance di insulti e parolacce come nel celebre comizio di Genzano nel maggio 2011), è anche una questione di sostanza: “buttarla” in confusione significa rendere più difficile l’accertamento delle responsabilità, penali e politiche.

A TESTA ALTA – E’ questa la governatrice che esce “a testa alta” dalla Regione. Una Polverini che voleva indossare i panni della moralizzatrice e che invece esce ammaccata e sporcata (nell’immagine) da una vicenda complessivamente complicata e soprattutto deprimente.

QUALCOSA DI OSCENO – Il quadro è composto infatti da una giunta inefficace e senza più la fiducia di partiti e cittadini e da un consiglio (presieduto da Mario Abbruzzese, primo nemico della Polverini) finito nel mirino di tutta la stampa italiana per la mole gigantesca di sprechi di cui s’è reso protagonista (e che neppure il piano dei tagli è riuscito a completare). In questo contesto i partiti sono allo sbando: il Pdl è solo teatro di una guerra tra bande dall’esito imprevedibile, l’Udc ha preso ordini dalla Cei ed è diviso sul da farsi (e ha già riaperto i canali con il Pd), la Lista Polverini cerca una nuova collocazione, mentre l’opposizione (Pd, Sel, Idv, Fds e Verdi) solo in ritardo ha saputo trovare la forza per uno scatto di reni. Un discorso a parte meritano i radicali: l’ultimo partito a dare la disponibilità alle dimissioni.
È una pagina che ha qualcosa di osceno quella appena vissuta. Non possiamo permettere che ci ricapiti.