Certo, le cifre lasciano il tempo che trovano. Eppure a volte servono a dare la misura della gravità di una situazione. Comparando le principali ricerche – dalla Commissione parlamentare sulla Contraffazione agroalimentare a quella sull’agromafia di Eurispes-Coldiretti – emerge che il giro d’affari del settore delle falsificazioni, delle imitazioni e delle infiltrazioni mafiose in agricoltura e nell’agroalimentare è di 72 miliardi di euro. Sessanta riguardano la filiera del falso (che sottrarrebbe ai produttori onesti circa 6,5 miliardi e toglierebbe dal mercato circa 300mila posti di lavoro), 12,5 miliardi sono invece il business della criminalità organizzata, tra l’acquisto dei terreni, la coltivazione delle materie prime, la trasformazione e la distribuzione.
Numeri impressionanti che riguardano uno dei settori strategici della nostra economia, da sempre nel mirino dei clan. Spiega la Direzione nazionale antimafia, nella relazione del 2011: «Il legame delle mafie con l’agricoltura ha radici antiche, di natura storico culturale, legato alla nascita stessa del fenomeno mafioso, per larga parte originatosi proprio nelle campagne». I reati principali vanno dal furto delle attrezzature e dei mezzi agricoli all’abigeato, dall’usura al racket, dall’abusivismo edilizio al saccheggio del patrimonio naturale, dalle macellazioni clandestine al danneggiamento della colture, fino al caporalato e al grande affare delle truffe dell’Unione europea.
Il fenomeno inizialmente era legato alle regioni del Mezzogiorno. Poi, come in tutti gli altri settori criminali, si è via via allargato alle altre regioni seguendo, rileva la Dna, «le direttrici logistiche del trasporto e del commercio dei prodotti agricoli».
Non è un caso, allora, se alcune delle principali inchieste antimafia del Lazio abbiano riguardato Fondi (Latina) dove le cosche avevano messo le mani sul mercato ortofrutticolo per gestire il trasporto e la commercializzazione dei prodotti. Non è sempre un caso se, di nuovo nel basso Lazio, secondo la Flai Cgil, sia sempre più diffuso il caporalato, che coinvolge soprattutto lavoratori stranieri (africani, indiani e dell’Est Europa). E non è neppure un caso, forse, se gli agricoltori – anche in provincia di Roma – abbiano denunciato negli ultimi mesi numerosi furti, aggressioni, estorsioni, abbiano ammesso di essere costretti a pagare per non subire danneggiamenti o, peggio, abbiano confidato di essere costretti a stare nei campi con la pistola in tasca. Il costo della solitudine dei cittadini, anche in campagna.
Il programma di Pignatone
Poche e chiarissime parole. Così ha scelto di insediarsi a capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone. Il magistrato siciliano, prendendo possesso lo scorso 19 marzo del suo ufficio al primo piano di piazzale Clodio, s’è rivolto alle istituzioni cittadine, alla politica, ai suoi colleghi, alle forze dell’ordine che con la magistratura dovranno lavorare e alla città intera con un brevissimo discorso, che però lascia intendere molte cose sul suo metodo di lavoro e sull’indirizzo che prenderà la Procura.
«Sono consapevole della complessità del compito che mi accingo a svolgere – ha detto Pignatone – Il ruolo del pubblico ministero è fondamentale per il servizio che rende ai cittadini, specie ai più deboli, in risposta alla loro domanda di giustizia. È una funzione essenziale e delicata» che deve essere svolta «coniugando la cultura della garanzia con quella dei risultati». Un messaggio di rivendicazione del mestiere di magistrato e anche una rassicurazione ai cittadini: sul garantismo e anche sull’obiettivo di risolvere i tanti casi ancora aperti nella Capitale. A questo proposito, Pignatone ha voluto sottolineare che «a Roma ci sono magistrati di grande valore e di elevate qualità professionali che hanno saputo gestire in questi anni processi importanti in ogni settore e fronteggiare una gran massa di procedimenti». Proprio ai suoi sostituti e collaboratori – oltre che ai vertici istituzionali – sembra essersi rivolto il nuovo procuratore capo quando ha detto: «Sono sicuro di poter collaborare con tutti». Parole di grande distensione – pronunciate da un magistrato conosciuto anche per le sue doti “manageriali” e di gestione – dentro una Procura che nel corso degli anni è stata attraversata da malumori, guerre intestine e che spesso è stata percepita come il “porto delle nebbie”. Da ultimo Pignatone ha sottolineato «di poter aggiungere» nella sua nuova sfida romana «la mia esperienza a Palermo e a Reggio Calabria» dove, prima da procuratore aggiunto (in Sicilia) e dopo da procuratore capo (in Calabria), s’è sempre occupato di mafia. A buon intenditor, poche parole. Finalmente si proverà a leggere, all’interno di un quadro unico, l’intreccio perverso tra politica, imprenditoria, professioni, criminalità e mafie? Presto per dirlo. Adesso per Pignatone è il momento di mettersi a lavoro. I primi bilanci si potranno fare solo tra alcuni mesi.
(Mammasantissima, Paese Sera, anno 2 n.4, Aprile 2012)
Criminalità fuori cornice
«Violenza efferata». Si esprime così nella relazione sul 2011 la Direzione nazionale antimafia a proposito della realtà di Roma. E tutti i cittadini che nell’ultimo anno hanno assistito a decine di omicidi e gambizzazioni non possono che essere d’accordo. Ma non c’è solo questo nella nuova relazione della Dna. Dall’analisi dei magistrati, infatti, emerge un quadro complesso e tutt’altro che lineare, che dimostra anche quanto siano ancora parziali le conoscenze sul nuovo crimine romano. La Dna spiega che molti omicidi del 2011 (ancora troppi senza una soluzione!) non sarebbero da ricondurre alla criminalità organizzata. Tuttavia, subito dopo, ammette che molte aggressioni «per le modalità esecutive, o per le caratteristiche soggettive delle vittime, o per l’esito delle attività di indagine, risultano invece maturate a seguito di contrasti insorti in un contesto criminale». A proposito delle organizzazioni criminali, la Dna chiarisce che non si può parlare di «nuova Banda della Magliana» perché non si segnalano egemonie e sottolinea la brutalità d’azione di gruppi autoctoni che si dedicano a usura, gioco d’azzardo e traffico di stupefacenti. Nello stesso tempo, la Dna elenca con preoccupazione le attività delle mafie: «L’edilizia, le società finanziarie e immobiliari e nell’ambito del commercio – la ristorazione, l’abbigliamento e le concessionarie di auto». Una presenza significativa dimostrata dall’arresto dei latitanti, «circostanza che presuppone la necessaria presenza di un “dispositivo criminale” idoneo ad assicurare la clandestinità degli stessi» e dai «provvedimenti di sequestro patrimoniale o di confisca», che servono «a dare la misura dell’infiltrazione criminale nel tessuto economico e finanziario».
La cornice appare unica (seppure certamente non omogenea), ma i magistrati continuano a leggere i fatti in maniera frammentaria e disorganica. Non è un caso forse che non esista una vera indagine sul quadro criminale romano, che le forze dell’ordine abbiano mezzi e organici ridotti all’osso, che le inchieste più rilevanti siano quelle delle procure del sud, che sui 201 procedimenti aperti dalla Dda romana nel 2011 in appena 10 – dato allarmante, vista la massiccia presenza dei clan – viene ipotizzato il 416 bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Partendo da tutto questo, sarà interessante capire che direzione prenderà il lavoro della Procura con l’arrivo del nuovo procuratore, Giuseppe Pignatone, uno specialista – da Palermo a Reggio Calabria – di indagini antimafia.
(Mammasantissima, Paese Sera anno 2 n. 3, Marzo 2012)
Di Maria Concetta e di un dibattito anti-‘ndrangheta
Uccise o suicidate cambia poco, almeno rispetto alle nostre responsabilità: non dovevano essere uccise, non dovevano essere suicidate. Di fronte a Maria Concetta Cacciola e alle altre donne morte di ‘ndrangheta, agli oltre 300 omicidi di innocenti trucidati dai clan, siamo tutti colpevoli. Questa consapevolezza è indispensabile, se vogliamo fare finalmente un ragionamento onesto sulle cosche, sulla Calabria. Senza indulgenze, senza ipocrisie, senza scorciatoie. E senza pulpiti impropri.
LA STORIA CHE CAMBIA – La collaborazione lucida e dolorosa di Maria Concetta Cacciola, la sua morte disperata hanno cambiato la storia della ‘ndrangheta. Per sempre. Cetta – in vita e dopo la morte – ha colpito i clan nell’onore e negli affari, ha rotto equilibri immutabili e svelato le regole di un mondo arcaico eppure capace di stare nel contemporaneo. È stato un percorso difficile, contraddittorio, coraggioso il suo. Finito in tragedia, certo. Che rischia di perdersi se non sapremo coglierne l’eredità, che rischiava di naufragare senza l’inchiesta della magistratura che per fortuna ricostruisce i fatti in una terra dove quasi mai gli innocenti hanno giustizia e verità.
LE VERITA’ DI CETTA – Ma la storia di Cetta – la sua vita, la sua collaborazione, la sua morte – non cambia soltanto la storia della ‘ndrangheta. Nel bene o nel male, cambierà anche la storia della Calabria. Cetta ci riconsegna infatti alcune verità, in maniera così forte che a nessuno possono più sfuggire: quella di un sistema familiare (domestico e mafioso) chiuso, ottuso e violento, quello di un patriarcato (o sistema di subordinazione) che genera dipendenza economica, schiavitù psicologica e dominio sessuale, quella di un tessuto sociale che s’è impossessato di parole come onore, rispetto, tradimento e fedeltà (che dobbiamo riprenderci), quello di un apparato istituzionale incapace di costruire efficaci e vitali sistemi di protezione. E quello delle falsità alimentate attorno alla ‘ndrangheta: ci hanno raccontato per anni, per esempio, che il codice d’onore dei clan calabresi impediva di uccidere donne e bambini. “Dimenticati” prima e il nuovo dossier dell’associazione daSud su donne e mafia (in uscita il 24 febbraio) dimostrano numeri e storie alla mano che non è vero.
LE RISPOSTE CHE NON ARRIVANO – Ha fatto anche di più Cetta: senza volerlo, ci ha messi a nudo. Tutti. Ci ha interrogato, e le risposte che ci ha chiesto purtroppo tardano ad arrivare per un vuoto di discussione pubblica (che spero che l’appello del direttore del Quotidiano contribuirà a riempire) o per un disperante, volgare e strumentale dibattito.
Maria Concetta mette in discussione le nostre certezze, il sistema costruito e alimentato da chi fino a oggi ha avuto dei ruoli di responsabilità. Fallimentare, altrimenti non staremmo qui a discuterne. Ci chiede di rovesciare la concezione del potere e di trovare nuovi strumenti per criticarlo. Ci chiede di giocare in campo aperto. Rischiando, certo. Ma sapendo anche che non ci sono molte alternative.
SENZA SCONTI – Partendo da quello che siamo, senza sconti. Dal fragile sistema sociale, del debole – e spesso compromesso – sistema economico e imprenditoriale, dall’imbarazzante e complice sistema politico, dalla commissione d’accesso al Comune di Reggio Calabria, dal nervosismo preoccupante del governo regionale, da un sistema dell’informazione regionale che diffonde più veleni che notizie. E dallo scontro violentissimo che sta avvenendo per la ricomposizione degli assetti che seguirà, tra l’altro, al cambio al vertice della Procura di Reggio Calabria. Avviene sempre così: corvi e veleni, intimidazioni e bombe, omicidi e ferimenti hanno accompagnato tutti i cambi di potere in Calabria.
LA PAROLA STRUTTURALE – E ripartiamo anche dal giudizio della Dna che a proposito del rapporto ‘ndrangheta – Calabria usa la parola “strutturale”. Grave, pesante. Eppure con buoni margini di corrispondenza con la realtà. Che significa che quando si dice che la ‘ndrangheta sta nella società, nell’economia, nella politica e nel potere non si stanno costruendo allegorie, si sta raccontando un metodo di organizzazione di un pezzo di società, addirittura – come ha sostenuto anche l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione – di un pezzo di capitalismo. Che “non c’è – come ha spiegato Giuseppe Pignatone qualche giorno fa – una sola fetta sociale vergine”.
LA ‘NDRANGHETA IN MEZZO A NOI – Ma, per dirla sempre il procuratore di Reggio Calabria, “bisogna sempre distinguere il grano dal loglio”. E cioè non bisogna commettere il duplice errore di pensare che la ‘ndrangheta sta fuori e lontano da noi o, viceversa, che tutto sia ‘ndrangheta dentro e attorno a noi. Quando il Quotidiano della Calabria lanciò la manifestazione contro la ‘ndrangheta decidemmo di partecipare. Sfilammo dietro uno striscione che diceva: “La ‘ndrangheta è viva e marcia insieme a noi… purtroppo”. Abbiamo difeso ed esercitato il diritto agli spazi pubblici in un territorio in cui sono pochi e fragili. Abbiamo spiegato che sapevamo che in quel corteo c’era anche chi avrebbe dovuto restare a casa e sentirsi addosso il disprezzo degli onesti. E abbiamo ribadito una cosa di cui siamo profondamente convinti: se abbiamo compreso davvero la complessità della ‘ndrangheta, l’unità nell’antimafia non può essere un valore a prescindere. Non tutti i percorsi sono uguali: non tutte le istituzioni, non tutti i politici, non tutti gli imprenditori, non tutti i giornali, non tutte le associazioni. Il metro per costruire è quello del rigore da mettere continuamente alla prova, è quello del misurarsi sui fatti.
CHIAROSCURO – Bisogna invece provare a leggere le cose in chiaroscuro, misurando gesti e comportamenti, storie personali e alleanze (tattiche, strategiche o d’interesse) sui fatti, le questioni, le vertenze. Sul lavoro (l’assenza di lavoro e il lavoro nero), le grandi opere e gli appalti, la cura del territorio, la denuncia delle compromissioni vergognose di certa borghesia, le mazzette, il destino dei lavoratori stranieri, la selezione della classe dirigente, il silenzio imbarazzato o sprezzante dei politici sulla cosiddetta area grigia, l’impiego dei soldi pubblici, il senso delle campagne di stampa. E su quanto conviene (o non conviene) fare affari con le cosche in epoca di crisi, su come il sindacato difende i diritti dei lavoratori, su come le libertà vengono calpestate e i diritti negati, sul welfare che scompare, il degrado etico, il garantismo invocato soltanto per i forti, l’assenza di conflitto sociale. Un discorso che vale innanzitutto per le delegittimate (dai fatti) classi dirigenti locali. Ma può applicarsi anche al governo Monti che comprime i diritti sociali, non pronuncia mai la parola mafia e quando si occupa di clan dimostra superficialità, che non rimuove i prefetti incapaci, che non prova nemmeno a intaccare il legame stretto che tra clan e banche, che è sostenuto da una maggioranza che ha salvato Cosentino (e la maggioranza blindata non può valere soltanto per fare la riforma delle pensioni). Tutto in nome della crisi. Eppure i soldi delle mafie per combattere la crisi potrebbero essere utili.
Nel sentiero stretto descritto da Filippo Veltri ieri su questo giornale, bisogna che ciascuno si metta in gioco. Bisogna che chi ci ha consegnato questa Calabria si faccia da parte, e bisogna che la meglio gioventù si prenda finalmente lo spazio che merita per il lavoro prezioso che ogni giorno svolge e che purtroppo finora non è stato messo a sistema: non ci sono altre soluzioni.
LA SOLIDARIETA’ AL CONTRARIO – Con l’associazione daSud abbiamo fatto in questa direzione alcune proposte concrete. Con buona pace di chi trova utile o appassionante (chissà perché) attaccare un giornalista bravo come Giovanni Tizian. Abbiamo lanciato la “solidarietà al contrario”: proponiamo buone pratiche (alcune mutuate proprio dalla Calabria capace di produrre esperienze straordinarie) ad amministrazioni pubbliche e politici, professionisti e imprenditori, associazioni e scuole, giornalisti e artisti, cittadine e cittadini. Si trovano tutte sul sito iomichiamogiovannitizian.org. Sono un elenco aperto e, come sempre, chiunque può contribuire. Non sono certo la soluzione a tutti i problemi. Nessuno è autosufficiente. Sono però una modalità concreta per agire antimafia. E fare – anche grazie all’8 marzo lanciato dal Quotidiano – una discussione vera (e non interessata) sul futuro della Calabria. Sul futuro di questo Paese in mezzo alla crisi.
(Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria il 12 febbraio 2012 con il titolo “Di fronte a loro siamo tutti colpevoli”)
Io mi chiamo Giovanni Tizian
Sostenere un giornalista minacciato dalle mafie e sotto scor- ta significa anche diffondere il più possibile le sue parole. Mammasantissima questo mese è scritta da Giovanni Tizian.
«Ispettore, ha visto che siamo brave persone, i beni ce li hanno restituiti!». Quei volti Leonardo ce li ha impressi nella mente fin da quando tirava calci al pallone per le strade del suo piccolo paese della Locride. Strade sterrate, bucate, lasciate in balia di voragini che devastano le sospensioni delle auto. Qui la cappa di ‘ndrangheta c’è, si vede, si respira. Quella stessa cappa che a Roma c’è ma non si vuole vedere. Che governa settori di eco- nomia legale e illegale. Per molti non esiste. Neppure quando gestisce la “dolce vita” romana, il fenomeno preoccupa, neppure quando il sindaco Alemanno finisce, senza saperlo e ignaro di tutto, a un party elettorale al Cafè de Paris – da qualche mese confiscato agli Alvaro di Sinopoli – con una potente famiglia di ‘ndrangheta. Perché preoccuparsi? “Non possiamo conoscere i loro trascorsi, i loro rapporti”, rispondono ormai numerosi i politici d’ogni parte d’Italia. Nel dubbio, i voti non hanno odore. Politici, anche indagati, che urlano «non sapevamo fossero boss», e ‘ndranghetisti che sanno benissimo chi hanno davanti. Sulla sicurezza si fanno campagne elettorali, sulle politiche antimafia no. Nonostante la ‘ndrangheta scippi il futuro nel silenzio di tutti, lo rubi al Paese, ai romani e a Roma, non solo ai calabresi. Ecco, appunto i calabresi, ne conosco tanti di onesti, a dire la verità conosco solo calabresi onesti, perché a nessun ‘ndranghetista ho stretto mani.
L’ispettore di quel piccolo borgo della Locride, era una persona onesta. E con il suo meticoloso lavoro aveva sco- perto che la ‘ndrangheta di San Luca, cuore dell’Organizzazione, aveva messo le mani nel petto della capitale d’Italia. Ha scritto rapporti, compilato informative, sequestrato beni e ristoranti. Quell’ispettore, nato e cresciuto nella Locride, sa di cosa sono capaci quei mammasantissima di San Luca che si fanno chiamare imprenditori, e godono di appoggi “imbarazzanti” nella Capitale. Oggi lavorano e investono in mezzo mondo i soldi guadagnati sulla pelle degli onesti. Talmente importanti che la spada della Legge si piega e non può nulla contro di loro, e all’ispettore non resta che subire il ghigno dei due “imprenditori” liberi e con i beni dissequestrati. La ‘ndrangheta a Roma non deve esistere, l’ispettore se ne faccia una ragione. Ma per altri che hanno letto quel rapporto, e numerose altre relazioni investigative, beh, a Roma la ‘ndrangheta c’è, e per chi l’ha vissuta nella provincia di Reggio Calabria, si vede anche.