A Tabularasa
“Dimenticati” a Tabularasa
Il Procuratore Capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, viene interpellato sul tema dei pentiti durante l’incontro di apertura del Festival Tabularasa 2011, il 9 luglio a Reggio Calabria. La serata, partendo dal libro “Dimenticati”, ha visto confrontarsi gli autori Alessio Magro e Danilo Chirico, Giuseppe Pignatone, Francesco Forgione e Filippo Veltri, Direttore dell’Ansa Calabria.
Danilo Chirico e Francesco Forgione a Tabularasa 2011
Danilo Chirico apre il primo incontro del Festival Tabularasa 2011, in piazza Castello a Reggio Calabria, durante il quale si è discusso di ‘ndrangheta con l’ex presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone e il capo della redazione calabrese dell’Ansa Filippo Veltri a partire dal libro “Dimenticati. Vittime della ‘ndrangheta.”
“Mafie? Attenzione ai bank officer occulti”
Roma caput mafie come sostengono i magistrati della Dda o Roma che resiste al tentativo di infiltrazione dei clan come sostengono il prefetto, il questore e larga parte del mondo politico? Una domanda che ha un andamento carsico e che in queste ore torna di attualità per l’omicidio, pesante, di Flavio Simmi a Prati e per il sequestro alla ‘ndrangheta dello storico Caffè Chigi. Una domanda alla quale bisogna provare a dare una risposta “uscendo dagli schemi retorici”, mettendo insieme i pezzi, “costruendo uno sguardo d’insieme”. Parola di Maurizio Fiasco, sociologo ed esperto di mafie nella Capitale che il suo primo rapporto sulla criminalità romana l’ha scritto nel lontanissimo 1983. “Ci sono molti mafiologi che non studiano – dice subito – e personaggi che non vogliono che si studi”. E invece i fatti sono l’orizzonte da cui partire per tentare di decifrare le mafie romane.
“Ci sono una notizia buona e una cattiva”, dice. Quella buona è che il livello di comprensione e di investigazione oggi è molto elevato”. Che significa che sia i magistrati della procura “sia le tre forze di polizia hanno capacità, competenze e consapevolezza per affrontare il fenomeno”. La notizia cattiva rigurda invece la parte amministrativa e ispettiva: “Sta qui il vero buco, la vera falla di un sistema che mostra di essere arretrato, evanescente”. Perché, Fiasco ne è convinto, “il vero contrasto alla criminalità organizzata deve tenere insieme la risposta giudiziaria e la risposta gestionale a proposito della cosa pubblica e della programmazione degli investimenti”: se un sistema burocratico e amministrativo è impermeabile “il mafioso capisce che non deve neanche tentare di infiltrarsi”. E invece è “del tutto insufficiente l’apparato ispettivo nelle Asl, nel mercato del lavoro, nel contrasto all’abusivismo e agli illeciti ambientali. E un territorio estremamente vulnerabile come quello romano – sottolinea il sociologo – diventa estremamente attrattivo per la criminalità”. C’è poi un altro elemento che non si può sottovalutare nelle cause che aprono le porte ai clan nella Capitale: la disponibilità straordinaria di denaro liquido. “La crisi delle piccole e medie imprese ha ricreato – afferma Fiasco – un ampio mercato dell’usura e della rilevazione a prezzi da rottamazione di realtà imprenditoriali che un tempo erano redditizie e oggi sono in difficoltà”. Ma c’è una “specificità romana” che rende tutto più complesso, più vischioso, più pericoloso: “Esistono bank officer in nero, occulti” che permettono quattro tipi di operazione: “la scomparsa e poi la reimmissione nel sistema finanziario ed economico del denaro proveniente dall’evasione fiscale, quello frutto della corruzione (da parte di chi paga o di chi riceve tangenti) e che consente di riciclare il denaro sporco”. Si tratta di professionisti “senza peli sullo stomaco che sono capaci di dematerializzare la ricchezza perché, bisogna essere chiari, a certi livelli i soldi non si mettono sotto il mattone”, si tratta di professionalità “che in passato venivano offerte persino alla mafia russa”. Un quadro inquietante, su cui si fonda il sistema criminale della Capitale (che gestisce i grossi flussi di quattrini che arrivano dal Sud e dall’Europa). Concretamente. “Le ipotesi investigative su diverse inchieste romane hanno rivelato che esistevano uno specialista degli investimenti o persino una intera struttura di servizio capaci di nascondere il reddito o di impiegarlo in nero per sfuggire ai controlli”. Un quadro generale di vulnerabilità al crimine che va oltre gli stessi clan. Come non pensare, ad esempio, a servizi analoghi a quelli di consulenza che si ipotizzano per Pambianchi e socio, o per Lande, il cosiddetto “Madoff dei Parioli”?
Dall’altro lato, gli omicidi sono solo il segno di un sistema che sta cambiando, che si sta trasformando, ma è altrove che bisogna guardare. Siamo di fronte al ritorno della Banda della Magliana? Anche qui bisogna evitare inutili esercizi retorici anche se – certo – i nomi, le zone geografiche, i contatti, il gergo, molte altre cose sembrano legare la nuova criminalità romana con quella che ha caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta. “Le rapine e la verticalizzazione dei mercati criminali hanno andamenti ciclici – spiega Fiasco – prima si forma una generazione di rapinatori che poi acquisisce nuove competenze sul territorio. A quel punto è matura per passare ad altri affari. Si tratta del ciclo evolutivo della criminalità: che prevede la formazione di un soggetto autoctono. Esso ha un riferimento antropologico che noi siamo tentati di sottovalure, mentre invece in certi mondi ha grande importanza. Il richiamo allora è mitico, ma non c’è un’affiliazione diretta nonostante una certa coincidenza di territori e di quartieri”. Di sicuro, però, per non correre il rischio di finire di nuovo nelle mani di una Banda della Magliana, è necessario, secondo Fiasco, “bloccare le opportunità che hanno permesso a quella banda di ingrandirsi”. Un esempio? Le sale da gioco: “Quando nel 1991 abbiamo lavorato alla relazione della commissione parlamentare antimafia con il presidente Gerardo Chiaromonte – spiega – il gioco d’azzardo era tutto illegale. Oggi la disseminazione sul territorio delle sale da gioco offre occasioni sia per sviluppare il racket sul territorio sia per coprire il gioco in nero con quello legale”. Ovviamente non si tratta solo di questo. Una mappa possibile delle attività dei clan guarda a tutta la città: “l’usura legata all’abusivismo e i capitali sporchi nella creazione di case di riposo in periferia, l’occupazione degli esercizi commerciali prestigiosi al centro, le bande giovanili che riproducono un certo sistema gangeristico urbano in molti quartieri della città e le attività minori affidate alla malavita straniera”. Questo il quadro della mala romana. Con un ruolo specifico di certa borghesia e di certi professionisti. Con la miopia sconcertante della politica.
(Paesesera.it)
Mafie a Roma, tutto scritto dal 1991. Da 20 anni stessi affari e stessi clan
“I fatti, meglio sarebbe dire i cadaveri che insanguinano la Capitale, danno ragione a chi sostiene l’esistenza in Roma di una criminalità organizzata operante secondo gli stilemi delle associazioni mafiose”. Parole pesanti, scritte nero su bianco nel decreto del tribunale del 23 ottobre 1991, sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione. Parole riportate, una dietro l’altra, nelle conclusioni del capitolo su Roma e il Lazio della relazione della commissione parlamentare Antimafia guidata da Gerardo Chiaromonte e pubblicata proprio nel 1991. Venti anni fa. Una Commissione che, è scritto nel documento agli atti del Parlamento, ha “verificato l’esistenza di una evoluzione della grande criminalità nella regione, e in particolare nella Capitale, che produce minacce crescenti al tessuto civile, alle attività economiche e alle amministrazioni pubbliche”. Non siamo ancora a livello delle regioni meridionali, avvertono i commissari, ma “il fenomeno criminale appare in preoccupante espansione quantitativa e mutazione qualitativa”. Ecco perché suona sinistro il dibattito politico-istituzionale sulla presenza dei clan nella Capitale.
Non si tratta di analisi sociologiche. La Commissione Chiaromonte incontrò amministratori locali e magistrati, fece sopralluoghi a Roma e in città come Latina, Fondi, Formia, Gaeta, Aprilia, Cisterna, Pomezia, Cassino. Viene fuori, come aveva scritto anche il procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, l’11 gennaio 1991, che “la delinquenza mafiosa e congenere può ritenersi in qualche misura ‘trasmigrata’ nel Lazio e, in forma tutt’altro che evanescente, in una parte del suo Sud e della provincia di Roma, tanto in guisa diretta quanto attraverso connessioni locali, e anche con l’espediente di surrettizi impegni diversificati in molteplici comparti dell’economia legittima e della sottoeconomia”. Insomma, secondo la Commissione, “Roma e provincia hanno costituito meta di importanti personaggi della mafia, della ‘ndrangheta e della camorra, che hanno stabilito collegamenti con esponenti della malavita romana e con faccendieri legati ad alcuni settori del mondo economico e finanziario”. Un punto importante su cui si basa anche l’analisi dell’esperto Maurizio Fiasco pubblicata da Paesesera.it.
La Commissione evidenziando la caduta della Banda della Magliana (dopo arresti eccellenti e omicidi) sottolinea che i gruppi attivi a Roma si occupa da un lato dei tradizionali settori (“dello sfruttamento della prostituzione, del gioco d’azzardo e delle estorsioni”) e dall’altro “il traffico delle sostanze stupefacenti ed il contrabbando in genere”. Naturalmente sono da tenere dentro lo stesso quadro “le imprese di “lavaggio” del denaro sporco, le società finanziarie occasionali, l’anomalia delle gestioni e delle imprenditorie prive di qualsiasi presupposto apparente e che “sono attive nei più diversi settori, nelle più impensabili località e con le più inautentiche ragioni sociali” (dalla relazione del Procuratore generale)”. E la relazione ricorda la “vocazione romana” di Cosa nostra (con riferimenti a Stefano Bontade, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia oltre a Pippo Calò legato alla Banda della Magliana), gli interessi della camorra, la presenza della ‘ndrangheta. Anche I reati vengono passati al setaccio: le rapine sempre più professionali sul territorio, le estorsioni, l’allarme gioco d’azzardo definito “in preoccupante espansione” e “sottovalutato” dal legislatore. “Secondo il dirigente della squadra mobile di Roma la grossa usura (e le bische clandestine) – scrive la commissione – il riciclaggio di assegni provenienti dalla camorra, il toto-nero e la gestione delle sale-giochi costituiscono, insieme al traffico di droga, la principale fonte di guadagno della malavita organizzata”. Per avere un’idea della dimensione del fenomeno “è sufficiente considerare che a Roma vi sono più di mille circoli ogni macchina di video-poker incassa circa 2-3 milioni al giorno”. L’interesse dei clan, naturalmente, non è solo quello di guadagnare, ma anche di reinvestire il denaro sporco. E’ stimato – e siamo nel 1991 – in cinque miliardi al giorno il profitto nel settore del traffico di droga che “oltre a costituire la più remunerativa attività della malavita organizzata, rappresenta una vera e propria mutazione storica nell’organizzazione del crimine. L’enorme liquidità di cui dispongono i trafficanti – sottolinea la relazione – ha prodotto collegamenti internazionali sempre più fitti e contatti con settori dell’imprenditoria e della finanza per il reinvestimento dei capitali accumulati”. Già dagli anni Settanta “i gruppi mafiosi, unitamente ad esponenti della camorra, hanno cominciato ad investire il ricavato delle attività delittuose in negozi di abbigliamento, gioielleria, in negozi di elettrodomestici, autosaloni, esercizi alberghieri, imprese immobiliari, società finanziarie, società import-export e, perfino, nell’industria cinematografica. Negli ultimi tempi i gruppi criminali sono riusciti ad introdursi anche nel settore bancario, assicurativo”, c’è scritto ancora nella relazione. Aggiunge ancora la relazione analizzando la malavita romana degli anni Novanta: “L’imponente liquidità proveniente dal traffico della droga, dal controllo del gioco d’azzardo e dall’usura su larga scala, consentono alle associazioni delinquenziali più forti di penetrare nel mondo economico modificandone i vecchi assetti – osservano ancora I commissari – La necessità di reimpiegare il denaro di provenienza illecita porta al compimento dei cosiddetti delitti secondari e terziari di natura economica, valutaria, bancaria ed edilizia”. La delinquenza romana s’è trasformata grazie anche agli “stretti rapporti intercorsi con esponenti di spicco della mafia siciliana, della ‘ndrangheta calabrese e della camorra napoletana”.
Sempre la stessa storia, da vent’anni. Sempre la stessa sottovalutazione. Sempre gli stessi nomi che si rincorrono nei documenti, nelle indagini, nelle informative, nelle aziende. A Roma e nel Lazio. Dai Bardellino, ai Tripodo, ai Gritti, agli Alvaro che dalla periferia dell’impero sono arrivati al centro della Capitale. E la conclusione. Sempre la stessa, anche quella. Sempre violata: “I partiti politici devono assicurare le qualità morali dei loro candidati, anche attraverso il puntuale rispetto del codice di autoregolamentazione approvato dalla commissione parlamentare antimafia, al quale peraltro hanno aderito tutti i segretari nazionali”.
(Paesesera.it)