Il delegato antimafia rimasto nel cassetto

A Roberto Morrione, grande giornalista, che ha dimostrato il senso della parola libertà. Un riferimento vero per l’antimafia. Già ci manca.

 

«Mi sembra una proposta interessante», dice Gianni Alemanno. Poi aggiunge: «Non la conosco, la voglio approfondire». È il 28 ottobre 2010 e il sindaco risponde così a chi lo interpella sulla proposta di delibera del centrosinistra capitolino (primo firmatario Paolo Masini del Pd) che porta in Campidoglio – finalmente – il tema delle mafie. In tre modi: chiedendo l’istituzione del Delegato alla lotta alle mafie, di un Osservatorio permanente contro le mafie, di un corso di formazione ad hoc per politica e dirigenti del Campidoglio e dei municipi.

Sono passati più di sette mesi da quel 28 ottobre e della proposta del centrosinistra non si sa nulla. È sparita, se- polta in chissà quale polveroso cassetto, «nonostante il regolamento del consiglio comunale all’articolo 52 preveda il parere degli uffici competenti entro 15 giorni e il succes- sivo confronto in Commissione», sostiene l’opposizione. Un ritardo preoccupante, al di là delle norme regolamentari. Il sindaco non deve necessariamente concordare con la proposta: non è certo in discussione la sua autonomia di giudizio. Sarebbe però utile e opportuno capire cosa ne pensa (visto che l’ha giudicata «interessante» e da «approfondi- re») e soprattutto conoscere qual è la strategia antimafie dell’Amministrazione.

Perché l’emergenza è già realtà. La Direzione nazionale antimafia, nell’ultima relazione, descrive Roma come uno «snodo essenziale per tutti gli affari leciti ed illeciti» e spie- ga come i clan nella Capitale acquisiscano «anche a prezzi fuori mercato, immobili, società e attività commerciali nelle quali impiegano i capitali illecitamente acquisiti». Un’atti- vità che funziona proprio perché c’è basso allarme sociale: incomprensibile, visti gli arresti di boss, i sequestri di locali storici, l’aumento dei reati e persino dei fatti di sangue. Di fronte a tutto questo, cosa si segnala dal Campidoglio? Quasi nulla. A proposito dei soldi sporchi, Alemanno dice: «Il prefetto e la Camera di commercio devono costituire una task force per elaborare uno schema di controllo sulle attività economiche che possono risultare sospette». E una delibera di giunta lo autorizza a siglare un accordo con la prefettura. Davvero troppo poco.

(Paese sera, mensile giugno 2011)

L’estetica dell’antimafia al Goethe

Un’estetica dell’antimafia? È questa la domanda di partenza attorno a cui discutono Antonio Manfredi, direttore del CAM Casoria Contemporary Art Museum e Danilo Chirico dell’associazione daSud martedì 10 maggio alle ore 20.30, presso Auditorium Goethe Institut, in Via Savoia, 15 a Roma.
La storia del cinema sarebbe impensabile senza Il padrino, Good Fellas o Scarface. La rappresentazione dei gangster in questi film ha generato una tale forza d’effetto da servire addirittura da modello ai veri mafiosi. E quelli che si trovano sul fronte opposto? Come possiamo rappresentare le vittime della mafia? E i martiri e gli eroi nella lotta contro la mafia? Quale ruolo può assumere l’arte in generale nella resistenza contro la mafia?

Un’estetica dell’antimafia

Per troppo tempo il movimento antimafia ha pensato che fosse sufficiente il contenuto: se una storia è forte – era il senso di un ragionamento sottinteso – arriva comunque a destinazione. La cultura main stream dal canto suo ha narrato la storia di gangster e assassini e la rappresentazione della mafia ha fatto un formidabile percorso: basti pensare a film come “Goodfellas” che sono parte della storia del cinema. La conseguenza è che esiste un immaginario – anche perversamente affascinante – sul crimine e che fatica ad affermarsi uno su chi il crimine lo combatte. Che c’è un mercato culturale legato ai carnefici e – quasi mai – alle vittime. Circostanze non proprio irrilevanti. Perché, dopo le serie “il Capo dei capi” o “Romanzo criminale”, può accadere che Riina o il Libano vengano presi a modello e imitati dai ragazzi. Ma a volte a subire il fascino dello schermo non sono solo i più piccoli. Può succedere anche che un boss come Walter Schiavone per la sua villa a Casal di Principe decida di copiare “Scarface”. Questi fatti suscitano polemiche e discussioni accese: sulla rappresentazione della realtà, i diritti e i doveri degli artisti, l’opportunità che certe opere circolino tra i giovani. Questioni (“Può esistere un’estetica dell’antimafia?”) su cui nei giorni scorsi ha invitato a riflettere un istituto di cultura straniero (ma quelli italiani?): il Goethe Institut. Un tema controverso, scivoloso, su cui – senza pretese di verità – vale la pena discutere: intanto si deve dire “no” a ogni censura e si deve avere rispetto – e cura – per il lavoro di artisti e creativi. Che significa non legittimare chi dice che “la Piovra” o “Gomorra” rovinano l’immagine dell’Italia e contrastare l’idea che è meglio non avere le opere se c’è il rischio che siano diseducative. Basti dire che il cinema sarebbe più povero senza “il Padrino”.

La partita (su cui sfidare artisti e produzioni) è invece quella di raccontare nuove storie, e di farlo bene. Di costruire un immaginario antimafie, dei diritti sociali e civili in cui si può riconoscere gran parte del Paese. Questo significa che la battaglia non è sulla sottrazione (meno film sui killer), ma sulla proliferazione di progetti culturali (più pellicole sulle vittime), non si conduce sul marketing e le mode ma sulla qualità (offrendo opportunità agli autori capaci, oltre che sensibili). Non è sufficiente insomma raccontare: è importante come si racconta. Altre due convinzioni vanno sfatate. La prima riguarda il rigore del racconto. “I cento passi” può aiutare a chiarire: è vero, la storia di Peppino Impastato contiene imprecisioni e il film si conclude con una bugia (ai funerali non c’erano le folle) eppure si tratta di un buon film che ha reso Impastato parte di un immaginario largo e condiviso. La seconda convinzione riguarda la violenza: la serie “I Soprano” mostra boss e killer spietati e senza scrupoli, affascinanti e persino simpatici. Eppure con straordinaria efficacia racconta anche di mafiosi con gli attacchi di panico o che vivono nascondendo la propria omosessualità, dipendenza dall’eroina o persino i problemi di erezione. Di questo bisogna parlare. Di modelli di racconto e di storie che meritano di essere conosciute, di autori e giornalisti pigri e poco curiosi, di scrittori famosi che si accontentato della retorica, di un sistema produttivo che non rischia. L’arte e la creatività devono avere invece l’ambizione (e l’opportunità) di raccontare la realtà, di offrire nuovi punti di vista, di metterci in discussione. Un tentativo, a fatica, è in corso: nel cinema (con i lavori su Falcone, Borsellino e Livatino, su don Puglisi e Siani, con “Gomorra” di Garrone e “Placido Rizzotto” di Scimeca fino all’ultimo, e bellissimo, “Tatanka” di Gagliardi), a teatro (con “U tingiutu” di Scena verticale o il lavoro di Emma Dante), nella musica (quarant’anni fa il concept album – censurato – “Terra in bocca” dei Giganti, oggi alcuni episodi come “L’appello” di Silvestri o il tour dei Modena City Ramblers), nei musei (il Cam di Casoria o le “fiumare d’arte” siciliane di Antonio Presti), nella satira (dal siciliano Giampiero Caldarella al lombardo Giulio Cavalli). Molte cose importanti restano fuori da questo parziale e arbitrario elenco. Ma questi nomi bastano a dimostrare che quando l’arte ha raccontato è aumentata la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini, è nato un immaginario. Non è abbastanza, ma esiste.

Un capitolo a parte merita la Calabria, patria della più potente delle mafie e luogo quasi del tutto privo di rappresentazione e autorappresentazione. Allora forse non è un caso che i libri recenti più riusciti nel racconto di quella terra siano di un napoletano (Francesco Cascini con il suo “Storia di un giudice”) e di una reggina trapiantata al nord (Rosella Postorino con il suo bellissimo “L’estate che perdemmo Dio”) o che non esista una cinematografia sulla Calabria (ha fallito persino Comencini). Qualcosa però si muove, di importante: Peppe Voltarelli, Massimo Barilla, Ernesto Orrico, Luca Scornaienchi, Nino Racco, Kalafro, Popucià sono solo alcuni dei tanti interpreti dell’Onda calabra anti-‘ndrangheta. Qui si inserisce l’attività dell’associazione daSud che questo mondo cerca di tenerlo in rete. E che con la cultura e i nuovi linguaggi creativi ricostruisce la memoria negata e ragiona attorno a una nuova identità meridionale. Con il libro “Dimenticati” abbiamo raccontato più di 250 storie di innocenti uccisi, sono nati documentari e un archivio multimediale, murales e lavori fotografici, trasmissioni radiofoniche e campagne mediatiche come “Le mafie ci uniscono” sull’unità d’Italia. Abbiamo investito sul teatro e la musica, offrendo storie e palcoscenici a un movimento forte (e non abbastanza conosciuto) che ha riscoperto il suo territorio, le sue storie, il suo dialetto. A tutto il Sud è dedicato il nostro lavoro sui fumetti: un nuovo linguaggio contro i clan. La strada è ancora lunga, ma è tracciata. Può esistere un’estetica dell’antimafia?, chiede il Goethe. Deve.

(il manifesto 12 maggio 2011)

Le mafie ci uniscono

Subito una precisazione, necessaria: in questo ragionamento non c’è nessuna grottesca tentazione scissionista o nostalgia neoborbonica. Non c’è nessuna voglia di agitare la retorica tricolore – nazionalista o praticata in sella a un cavallo bianco – nessun ammiccamento ai festeggiamenti di un Paese ingessato. Questo è il ragionamento collettivo – aperto, di certo parziale – di chi pensa che, in occasione del 150° anniversario dell’Unità del Paese, bisogna parlare dell’Italia vera, di quella che esiste e resiste. Da qui (tutti i materiali sono da domani su dasud.it) nasce la campagna “Le mafie ci uniscono”, uniscono nord e sud, le nostre identità. Parla con molti linguaggi all’Italia, alla politica, ai movimenti. Per dire che fingere che le mafie non ci siano, non serve. Chiede la partecipazione di tanti, per riempire noi gli spazi che altrimenti finiscono nelle mani sporche degli altri. Per costruire, finalmente, ragioni profonde per stare insieme, le basi di un Paese fondato sui diritti e le libertà. Un paese antimafie, senza mafie.

Per farlo, occorre partire da quello che siamo. Senza sconti, consapevoli che la nostra identità di italiani oggi è debole, sfocata, frutto di un processo storico che ha lasciato ferite mai rimarginate a cui s’è aggiunto un trentennio di neoliberismo che ha stracciato i diritti. Oggi siamo un’Italia rotta, avvilita, guasta. Siamo un Paese precario, senza un’idea di sé, che umilia le differenze, costringe le libertà, offende la cultura, si nutre delle sue contraddizioni, un Paese in cui crescono vertiginosamente le disuguaglianze tra le fasce sociali, tra nord e sud. E siamo il Paese delle mafie: sin dal 1861, quando hanno iniziato la marcia inarrestabile che le ha portate ad essere presenti in tutte le regioni e a diventare soggetti glocal, capaci di unire dominio territoriale e affari mondiali. Così oggi le mafie non sono più un’emergenza meridionale, ma un elemento strutturale, seppure patologico, della modernità, del sistema economico e di potere del XXI secolo. Le mafie controllano il Paese non solo per la forza militare. Ma perché fanno politica ed economia, hanno una sconfinata liquidità e condizionano il mercato del lavoro, stanno nella massoneria e collaborano con i servizi segreti, infiltrano le istituzioni e ci trattano, inquinano le università. Per dirla in altri termini, stannonel potere, hanno e gestiscono consenso, contengono il concetto di borghesia mafiosa. Se così non fosse, semplicemente non sarebbero mafia.

Se vogliamo attraversare degnamente il 17 marzo, quindi, dobbiamo fare i conti con tutto questo, ragionare in chiaroscuro dell’esercizio del potere, del modello economico e della crisi, portare le mafie e l’antimafia al centro della discussione nella politica e nei movimenti sociali. E se vogliamo davvero ragionare di memoria, è bene ripartire da chi si è battuto per la libertà, per i diritti sociali e civili oggi in pericolo, dalle vittime innocenti delle mafie. Di questa Italia vogliamo parlare, e di quella capace di accogliere lo straniero, rispettare le differenze di genere, mettersi in discussione. Non è semplice, certo. Serve un ribaltamento culturale, ripensare il modo di concepire mafia e antimafia, nord e sud. Bisogna eliminare il termine legalità e ragionare di giustizia, uscire dall’emergenza e puntare sulle logiche di sistema, rigettare l’idea degli eroi e promuovere pratiche comuni, sbugiardare le amnesie e le ambiguità di Stato che stanno a destra e sinistra. E ancora, comprendere che antimafia significa difendere il territorio dalle speculazioni, affermare il diritto ai servizi pubblici, pretendere una buona informazione, combattere la precarietà sociale e generazionale, sfuggire dal ricatto occupazionale, contrastare i fatti di Rosarno. Non capirlo, significa negare l’essenza e l’esistenza stessa delle cosche, sostenere che con i clan si deve convivere, o considerare pezzi d’Italia persi per sempre. Significa usare gli schemi di chi ha fallito.

Attorno a noi abbiamo una crisi epocale gestita da una classe dirigente delegittimata dai fatti. Bisogna rispondere con l’impegno collettivo e la partecipazione, allargando il fronte delle alleanze, della battaglia politica. Così declineremo anche lo sciopero generale. Con la rivendicazione di diritti, di un’identità. Chi si tira fuori, si sottrae alla responsabilità di pensare al futuro. Questa è la battaglia antimafie. Che si vince, se ciascuno fa la sua parte. Con rigore e curiosità. Senza indulgenze, equivoci, compromessi sui principi, senza predicare una cosa a Roma per rinnegarla in Calabria. Vale per tutti, fino in fondo.

(pubblicato su “Il manifesto” del 15 marzo 2011)