Storica sentenza del Tribunale di Palmi

Una sentenza memorabile, che cambia il rapporto tra mafie e territorio. Passa il principio che le cosche impediscono lo sviluppo e che, per questo, devono risarcire i cittadini. La pronuncia-svolta, dello scorso luglio, viene dalla Calabria: il giudice del Tribunale di Palmi, Antonio Salvati, ha accolto infatti la richiesta di maxirisarcimento del Comune di Rosarno per danni all’immagine, morali ed economici.

 Conto salato per i mammasantissima. È la prima volta che accade in sede civile. A pagare saranno 16 esponenti delle potentissime cosche Piromalli e Bellocco, dominatrici della Piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Ad aprire il proprio forziere e a pagare 9 milioni di euro, con gli interessi, saranno mammasantissima del calibro di Carmelo Bellocco, Girolamo Molè, Gioacchino e Giuseppe Piromalli, ras di Gioia Tauro e Rosarno.
«Una sentenza simbolo», sottolinea Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia. «Una decisione di straordinaria importanza», gli fa eco il senatore calabrese di Sd, membro dell’Antimafia, Nuccio Iovene. E Libera ragiona: la costituzione di parte civile si affianca alle confische come strumenti per colpire con efficacia le cosche.

Il nesso tra mafia e povertà. La rivoluzione di Palmi nasce da lontano. I 16 costretti a risarcire il Comune rosarnese furono condannati per associazione mafiosa nel maxiprocesso “Porto”. L’inchiesta della Dda di Reggio che sul finire degli anni Novanta svelò le infiltrazioni nel porto di Gioia Tauro costò ai clan decine di arresti e sequestri. L’allora sindaco di Rosarno Peppino Lavorato volle il suo Comune contro i clan in sede penale prima e civile poi. Con la sentenza di Palmi i fatti gli danno ragione: «È provato – secondo il giudice – che l’attività delle cosche abbia interferito con l’esplicazione delle potenzialità economiche del territorio». Rifacendosi al processo “Porto”, il giudice rileva come «la pervasività e l’ampiezza del controllo sulle attività economiche connesse al porto di Gioia Tauro ha presentato connotati tali da rendere pienamente sussistente il nesso causale» tra presenza mafiosa e danno economico per le comunità locali, con una vera e propria «occupazione armata del territorio».

Un’intuizione lungimirante. Una «sentenza di straordinario rilievo», sottolinea il legale del Comune di Rosarno, l’avvocato Salvatore Costantino, un “precedente significativo” che dà agli amministratori un’arma affilata, “uno strumento ordinario” contro le cosche. Un risultato che si deve all’intuizione di Peppino Lavorato. L’ex parlamentare Pci ed ex primo cittadino Ds di Rosarno oggi la racconta così: «Dopo i rinvii a giudizio e saputo che i Comuni erano indicati come parti lese nelle carte del procedimento Porto, fu naturale la costituzione di parte civile in sede penale». Lavorato va oltre e chiama in causa la Provincia di Reggio, la Regione Calabria e il Governo, tutti di centrosinistra. «Abbiamo chiesto di stare al fianco dei Comuni contro la ‘Ndrangheta», dice. La risposta è positiva e, per una volta, «il fronte compatto». Nel 2002 arrivano le condanne definitive per i 16 che avevano scelto il rito abbreviato. Lavorato non s’accontenta e dà «mandato di chiedere il risarcimento in sede civile». Un’avventura che vedrà il Comune di Rosarno da solo nella sfida ai Bellocco e ai Piromalli. Perché soffia il vento della destra e le altre istituzioni si defilano. Anche Rosarno (Lavorato non si può ricandidare) passa alla Cdl, ma quel procedimento resta in piedi, in silenzio.

Una strada parallela. Sostiene oggi Lavorato che «quella di Palmi è una sentenza storica che ci indica la strada per combattere la mafia. Fino in fondo». Non può però non sottolineare l’amarezza nel notare che «l’ente più piccolo e indifeso sia stato lasciato solo». Ma oggi, forse, qualcosa può cambiare. La pensa così il presidente Forgione, calabrese, che nella sua gestione dell’Antimafia ha messo la ‘Ndrangheta al primissimo posto. «La sentenza di Palmi – commenta – è un buongiorno della giustizia e quello di Lavorato è un esempio per chi governa Comuni ed Enti locali». Un gesto politico rilevante, «ma anche un’altra via – spiega Forgione – per aggredire i patrimoni delle famiglie mafiose, in questo caso di due famiglie importanti come i Piromalli e i Bellocco». Una strada da percorrere con grande convinzione anche per il senatore Iovene. «Questa sentenza – rimarca – dimostra che la costituzione di parte civile, che su impulso di Lavorato abbiamo chiesto molte volte, non è un fatto simbolico, ma politicamente e concretamente rilevante anche perché si riconosce un principio fondamentale: la presenza dei clan danneggia il territorio e le comunità». Dunque, per il senatore, le cause civili sono una strada «parallela e altrettanto incisiva rispetto alle confische dei beni».
Anche Libera, che da sempre punta l’attenzione sulle confische, pone oggi l’accento sulle costituzioni ai processi di mafia, in sede penale e civile. E con la direttrice Gabriella Stramaccioni incalza le istituzioni: «Non si devono lasciare soli i familiari delle vittime e gli amministratori coraggiosi. Bisogna rafforzare le reti territoriali di contrasto alla mafia, dimostrare che la mobilitazione è corale. Speriamo che quello di Lavorato non resti un caso isolato. Anche perché – aggiunge – non servono eroi. Servono reti di supporto. E la modifica dello statuto di Libera per permetterci la costituzione di parte civile contro le mafie va in questa direzione». Il richiamo è chiaro: ognuno faccia la sua parte.

Ancora solo contro le cosche. Lavorato, in questo senso, ha un’idea concreta, stringente. Che parte da uno sfogo: non si può infatti non sentire, per Lavorato, «il completo silenzio del mondo politico e istituzionale», dopo una sentenza che «rincuora tutte le persone oneste». Se questo è vero, la pronuncia del giudice di Palmi «deve spingere a una rigorosa riflessione autocritica tutti i poteri dello Stato iniziando da quelli più in alto». Basta solidarietà sterile, è il ragionamento, la cosa importante adesso è che «le costituzioni di parte civile, le successive richieste di risarcimento danni in sede civile e le richieste di acquisizione dei beni confiscati diventino atti dovuti e non discrezionali». Serve un’assunzione di responsabilità collettiva, dice, perché «solo se si dispiega questo impegno corale, tutti potranno lavorare con maggiore serenità ed efficacia – spiega l’ex sindaco antimafia – e nessuno correrà più pericoli». Lo sa bene Lavorato cosa significa e sa bene che cosa vuol dire vivere isolato. Gli è capitato per anni, da quel giugno 1980 quando s’è visto morire tra le braccia Peppe Valarioti, segretario del Pci di Rosarno, il suo discepolo. Insieme avevano sfidato le cosche. Da allora la vita di Lavorato è cambiata: ha giurato che avrebbe combattuto la ‘Ndrangheta, a viso aperto. E quasi mai ha trovato il sostegno concreto di cui avrebbe avuto bisogno.

Classifiche antimafia. Non s’è dato per vinto e anche oggi, che dal tribunale di Palmi arriva un nuovo strumento di lotta, lancia una proposta alla Commissione parlamentare antimafia, reduce da un viaggio ricognitivo in Calabria. Per Lavorato «occorre chiedere alle Dda l’elenco dei soggetti pubblici individuati come parti lese nei processi penali di mafia, accertare quanti hanno compiuto e quanti non hanno compiuto il loro dovere e rendere pubblica tale verifica». Stesso discorso per i beni confiscati. Una sorta di classifica, dunque, dei Comuni virtuosi sul fronte antimafia. Una buona proposta per Francesco Forgione quella di rendere pubblica la lista dei Comuni in prima linea nei processi: «È una richiesta giusta, ne discuteremo. Speriamo che nell’ambito dei lavori sul comitato degli Enti locali si possa dare una risposta concreta».

(scritto con Alessio Magro, pubblicato da Narcomafie)

Lascia un commento