Sicurezza, Alemanno ‘agita’ le paure: serve lo sceriffo. Marino: “Chiacchiere, distintivo e nessun risultato”

Alemanno-moto_fullLa campagna elettorale torna sui temi che fecero la fortuna del primo cittadino nel 2008: “No al buonismo veltroniano, Roma ha inventato il diritto e la legge e noi dobbiamo riuscire a farli rispettare”. L’affondo del candidato del centrosinistra: “Solo parole e tantissimi danni, soprattutto per le tasche dei cittadini: le consulenze del Campidoglio sul tema sicurezza ci costano più di 1,5 milioni l’anno”. Sulle giuste esigenze di sicurezza dei cittadini si gioca una parte importante della sfida per il Comune: il centrodestra parla alla pancia della città, il centrosinistra cerca una strada dopo i gravi errori del passato.                    Anche gli altri schieramenti provano a trovare una posizione convincente.

Gianni Alemanno è politico abile e ci riprova. Cinque anni fa alzare i toni sulla sicurezza gli portò fortuna, voti e l’elezione inattesa a sindaco di Roma. Così oggi, con i sondaggi che lo danno a un’incollatura da Ignazio Marino, capisce che una strategia per la riconferma può essere quella di tornare a parlare alla pancia dei cittadini alimentando (irresponsabilmente?) le loro sacrosante paure, puntando sul senso di insicurezza che tanti cittadini si sentono addosso. E sorvolando, invece, su questioni centrali per il futuro della città, a partire per esempio dal radicamento delle mafie o dal malaffare che aggredisce l’economia.

L’IMMAGINARIO DEL SINDACO – Un meccanismo antico – su cui Alemanno ha fatto propaganda e governato – che si misurerà con il consenso alle urne tra 15 giorni. Nel frattempo Alemanno ce la mette tutta. E se non fosse stato chiaro finora (grazie alle sue ordinanze legalitarie e alle sue notti in moto a caccia di prostitute da punire) il suo immaginario di ragazzino e di politico della destra nostrana, lui lo precisa così evocando il vecchio west: “A Roma – dice – serve anche uno sceriffo”. Poi aggiunge: “Servono leggi, regole, grande equilibrio, e soprattutto lavoro”. L’occasione è stata la replica a Ignazio Marino, il candidato del centrosinistra, che lo aveva attaccato così: “Spesso Alemanno è stato chiamato un sindaco sceriffo, io piuttosto lo chiamerei un sindaco ‘tutto chiacchiere e distintivo’. Infatti, da parte sue ci sono state tante parole ma niente sostanza. L’incapacità e l’immobilità fanno tantissimi danni, soprattutto per le tasche dei cittadini: le consulenze sul tema sicurezza ci costano più di 1,5 milioni l’anno. Potrebbero sicuramente essere spesi meglio, penso ad esempio all’illuminazione. Una città sicura è piena di luci e priva di sceriffi”. Due visioni opposte.

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Roma non più città aperta. La Capitale ai tempi di Alemanno

imagesI blitz squadristi dentro i licei “Giulio Cesare” e “Mameli”, gli insulti antisemiti sul web all’assessore del Municipio XI Carla Di Veroli, l’attacco al circolo Mario Mieli: sono soltanto gli ultimi episodi di intolleranza, razzismo e di apologia del fascismo che sono sempre più frequenti e preoccupanti. L’estrema destra si sente a suo agio in città e opera in maniera spavalda. E dalla destra istituzionale, che dall’estrema destra molte volte proviene, le prese di distanza appaiono soltanto di maniera e mai di sostanza.

Tutto nasce il giorno in cui Gianni Alemanno ha messo piede in Campidoglio, quando cioè festeggia in piazza la sua vittoria alle elezioni circondato senza troppo imbarazzo da tanti giovani, e meno giovani, che fanno il saluto romano. È quello il momento in cui la destra estremista o neofascista cittadina ha ritrovato (dopo la straordinaria sponda fornita da Francesco Storace governatore del Lazio) il crisma della legittimazione politica in città.

IL SALOTTO BUONO – È l’ingresso nel salotto buono. Così un numero impressionante di amici del sindaco, di vecchi camerati e missini, di esponenti della destra extraparlamentare o neofascista vanno a occupare posti chiave nella città che conta. Non è questo il luogo per raccontare le fin troppo note biografie di personaggi importanti come Antonio Lucarelli e Mario Vattani, Stefano Andrini e Francesco Bianco, Riccardo Mancini e Vincenzo Piso, Ugo Cassone e Alessandro Cochi, Vincenzo Piso e Giuliano Castellino, tuttavia è del tutto evidente che la macchina politica e amministrativa vicina al sindaco Alemanno (piena di crepe e che non ha certo dato prova di grandi capacità) è targata estrema destra. Non un reato, certo. Ognuno sceglie gli amici e i collaboratori che vuole. Ma un elemento significativo, pesante che ha creato un ambiente in cui i gruppi di neofascisti – tanti – che vivono in città si sentono a proprio agio, sanno di poter contare su punti di riferimento sicuri nel mondo delle istituzioni, dell’economia, della politica. Se a questo si aggiunge il modo criminogeno con cui la destra ha cavalcato il tema della sicurezza in campagna elettorale, le sortite intolleranti di Alemanno (e degli uomini e delle donne della sua giunta e del suo partito) nei confronti di migranti, rom e prostitute, il modo sprezzante e tutto mediatico di affrontare il disagio sociale seguendo una grottesca linea di “legge e ordine”, il disprezzo malcelato per i simboli dell’antifascismo e per la storia dei partigiani, le condanne di maniera (o le tirate d’orecchie) per i gesti razzisti o che incitano al fascismo, le conversioni sulla via di Damasco (che non hanno convinto nessuno) e il quadro è fatto.

UN QUADRO DEPRIMENTE – Ed è un quadro preoccupante e deprimente: racconta di una città che viveva una grande difficoltà e che – in preda all’ebrezza dell’evento – ha trascurato o voluto ignorare le sue fragilità e debolezze sociali ed economiche, politiche, pubbliche e private. In questa situazione precaria, l’arrivo della destra al governo ha dato un colpo fatale a Roma. Che sembra avere del tutto smarrito il senso di sé, non ha più rispetto per i suoi abitanti, oltraggia persino luoghi sacri come la scuola, tradisce la sua stessa comunità, prevarica e umilia i deboli, soffoca le differenze e le creatività, perseguita gli irregolari. Una città nera, in ogni senso.

TUTTO IN UN GIORNO – Succede allora che nella stessa giornata lo storico circolo omosessuale Mario Mieli denunci, ancora una volta, che “un gruppo di 4 ragazzi dalle teste rasate ha lanciato sacchetti di calce o gesso liquidi contro la facciata esterna del Circolo”. Succede che alcuni giovani che fanno capo a Blocco studentesco facciano blitz dal sapore squadrista nelle scuole “Giulio Cesare” e “Mameli” irrompendo al grido di “viva il duce” a volto coperto e armati di bastoni nei corridoi e nelle aule lanciando fumogeni. Succede che estremisti di destra vengano segnalati anche alla scuola “Avogadro”. E succede anche che sul web si trovino minacce gravissime per l’assessore del Municipio XI Carla Di Veroli che sul sito neonazista Stormfront viene definitita “omosessualista sfegatata” e “coccolanegri”. Ha una doppia colpa Di Veroli: s’è opposta all’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante ed è nipote di Settimia Spizzichino, unica donna superstite della retata al Ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943 (a cui, ha finalmente annunciato Alemanno, sarà dedicato il ponte dell’Ostiense). Tutti responsabilità del sindaco? Tutti fatti riconducibili alla macchina di destra che governa la città? Certamente no, non c’è nessun collegamento diretto. Ma non può essere una coincidenza se si contano a decine gli episodi di intolleranza, violenza, razzismo. Ci deve essere qualcosa che non funziona nell’ideologia che guida le scelte di questa giunta e di questa maggioranza, al di là delle dichiarazioni di queste ore (sul Mieli, peraltro, non ce ne sono state poi tante).

LA MOZIONE NON VOTATA – Meglio di qualunque commento, può spiegarlo la scelta – segnalata dal consigliere comunale del Pd, Paolo Masini – del gruppo Pdl e della Destra di non “sottoscrivere la mozione firmata da tutti gli altri gruppi che esprimeva solidarietà all’assessore Carla di Veroli e a tutta la comunità ebraica e che chiedeva inoltre la chiusura del sito Stormfront ed impegnava il sindaco di farsi promotore presso il Parlamento per l’approvazione di una legge che dia gli strumenti per perseguire i crimini informatici e la diffusione di idee che incitano all’odio razionale, all’antisemitismo e all’omofobia”. Replica il capogruppo Pdl Luca Gramazio: «Masini dice il falso. Ci mancherebbe altro: siamo pronti a votare la mozione di solidarietà a Carla di Veroli, vittima di attacchi inqualificabili e offensivi che meritano la condanna di tutta la città di Roma, anche nella prossima seduta consiliare. Perciò, preferiamo non rispondere ad inutili polemiche». Eppure la firma in calce alla mozione, che avrebbe permesso il voto ieri, non l’ha apposta. Nessuna parola di più. Solo che c’era una volta Roma città aperta. E che deve esserci ancora.

Che farà l’Udc? Cinque certezze e 5 domande

Le elezioni si vincono al centro. E’ attorno a questo mantra che discute in maniera ossessiva il Partito democratico: meglio allearsi con l’Udc e lavorare al Monti bis oppure aprire alla sinistra di Nichi Vendola e, magari, Tonino Di Pietro? Su questo discutono i dirigenti nazionali misurandosi su formule e alchimie che poco o nulla hanno a che fare con il consenso popolare. Sulla rottura di questa discussione sta provando a rafforzare la sua leadership Pier Luigi Bersani, su una forte caratterizzazione di centrosinistra e con il baricentro fondato sul contatto con i cittadini aveva costruito la sua candidatura al Campidoglio Nicola Zingaretti, capace di parlare ai moderati senza però cedere sui principi.

L’IMPROVVISA EMERGENZA LAZIO ha cambiato le carte in tavola. Una volta spostate alcune pedine nella scacchiera, è infatti del tutto naturale che si riaprano discorsi che sembravano ormai archiviati. E questo anche perché a Roma e nel Lazio conta forse più che altrove il peso del mondo cattolico e delle gerarchie vaticane. Così tra Campidoglio e Regione torna centrale la discussione su che cosa farà l’Udc, su dove troveranno la loro collocazione i centristi, i moderati, i cattolici. Uno scenario che avrà naturalmente ripercussioni anche a livello nazionale dove Bersani e Casini continuano a darsele di santa ragione.

IN QUESTE ORE CONVULSE, nelle quali il quadro si complica, almeno cinque cose sono chiare (anche se non tutte hanno lo stesso segno) e possono servire a leggere le prossime mosse dei partiti, dei candidati, degli schieramenti. La prima è che il perimetro dell’alleanza a cui faceva riferimento la candidatura di Nicola Zingaretti a sindaco era formato da quattro partiti: Pd, Sel, Idv e Psi. C’era l’ambizione di aprire a esperienze civiche e ai moderati, c’erano spinte da parte di alcuni democratici all’apertura all’Udc ma il baricentro era chiaro. La seconda è che l’Udc nazionale punta a decidere la sua collocazione un minuto dopo il voto, quello regionale – sulla spinta del vicepresidente uscente della giunta Luciano Ciocchetti – è nel centrodestra, mentre a livello comunale (soprattutto tra quelli che stanno all’opposizione di Alemanno) in molti guardano a sinistra. La terza è che il Messaggero, giornale vicinissimo a Casini, ha scelto (per ora) di sostenere Gianni Alemanno e di contrastare Nicola Zingaretti. La quarta è che le gerarchie cattoliche sono state decisive nella fine dell’esperienza Polverini. La quinta è che la candidatura (probabile) del cattolicissimo Andrea Riccardi scuoterà gli equilibri della politica romana.

IN QUESTO QUADRO CONFUSO e suscettibile di repentini cambiamenti (come dimostrano le ultime ore), per capire il destino dell’Udc bisogna rispondere essenzialmente a cinque domande. La prima: la chiesa cattolica decidendo la fine del governo di Renata Polverini che prospettiva politica ha dato all’impegno dei cattolici in politica nel Lazio e a Roma. La seconda: Nicola Zingaretti nella costruzione dell’alleanza regionale che lo sosterrà (la sua candidatura dovrebbe passare dalle primarie di coalizione) ha intenzione di ripartire dallo stesso perimetro politico che lo voleva sindaco? La terza: quando il segretario regionale del Pd Enrico Gasbarra (da sempre favorevole a costruire una coalizione con i casiniani) dice durante la direzione regionale “Vi chiedo mandato per proporre alla coalizione di opposizione di poter mettere a disposizione” la risorsa Zingaretti “che puo’ guidare il nuovo percorso di cambiamento” si riferisce all’opposizione di Renata Polverini (e quindi non all’Udc) o all’opposizione di Gianni Alemanno (e quindi anche all’Udc)? La quarta: quanto la definizione della candidatura di Andrea Riccardi passa dalle gerarchie cattoliche e quanto dal governo Monti? La quinta: le primarie saranno ancora lo strumento per scegliere il candidato a sindaco del centrosinistra?

E’ SCIOGLIENDO QUESTI NODI (per nulla semplici) che si capirà dove andranno l’Udc e i pezzi della chiesa che non guardano direttamente al Pd. È sciogliendo questi nodi che il centrosinistra costruirà il suo futuro (e il rapporto con la sua gente), dal Comune alla Regione. Fino a Palazzo Chigi.

Elezioni, quote di genere e di generazione

Siamo nel Paese che discute della candidatura a premier del 76enne Silvio Berlusconi e del possibile governo bis di un signore, Mario Monti, che a marzo compirà 70 anni, in cui per i giornali è una notizia (sic!) la decisione di non ricandidarsi dell’ultraottantenne presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Siamo nel Paese in cui Giorgio La Malfa è deputato dal 1972 e in cui la trasmissione tv più nuova la conduce Pippo Baudo (classe 1936). Siamo nel Paese in cui un dibattito viene percepito come credibile solo se lo lanciano personaggi come Eugenio Scalfari (classe 1924) e il festival della politica come serio solo se parla Emanuele Macaluso (89 anni). Siamo nel Paese in cui Assunta Almirante (87 anni) è sui giornali tutte le settimane e Giorgio Albertazzi, a un passo dal compiere 90 anni, partecipa (vincendoli) ai bandi pubblici per la gestione di festival teatrali.

Storie di personaggi che (quasi tutti) hanno dato molto. E che adesso, se davvero hanno a cuore il destino dell’Italia, devono mettersi a disposizione del cambiamento. Davvero, e cioè mettendosi da parte. Un fatto che presupporrebbe lungimiranza e intelligenza di una classe dirigente che, complessivamente, è delegittimata dai fatti. Un fatto che presupporrebbe nello stesso tempo grinta e capacità di protagonismo da parte dei più giovani.

Dopo la crisi deprimente che ha travolto la giunta e il consiglio regionale del Lazio, dopo l’assalto rozzo di Beppe Grillo e furbissimo di Matteo Renzi, è partita una discussione – ancora parziale, soprattutto ipocrita – sulla necessità di cambiare il Paese rinnovando la classe dirigente. Le contestuali elezioni per il Campidoglio, per la Regione e per il Parlamento offrono una straordinaria occasione. Che, come cittadini, non possiamo sprecare.

Per questo i giovani romani e laziali devono ritrovare la speranza, lanciare la sfida e imporsi sulla scena pubblica. Contemporaneamente, però, i partiti si impegnino a fare la propria parte. Praticando la discontinuità, non enunciandola. Intervenendo in maniera decisa sulla questione di genere e su quella generazionale.

Ecco allora due proposte, semplici semplici, rivolte ai partiti (anche per le Politiche), ai candidati a sindaco – in primo luogo Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti – e agli aspiranti governatori (che speriamo davvero siano scelti con le primarie). Due impegni che potrebbero essere assunti già in campagna elettorale. Nella compilazione delle liste si tenga conto di una quota di genere (per il 50%) e di una quota di generazione (ci sia una metà di candidati under 40). Gli stessi criteri siano adottati per la scelta degli assessori. Non si tratta naturalmente di avere una particolare passione per le quote (anzi!), né di cedere al banale ed estetico giovanilismo, quanto piuttosto di raccogliere il meglio delle sfide che vengono dalla società, dalle persone in carne e ossa (magari non quelle cresciute con il mito di Corneliu Codreanu). Piccoli gesti, per grandi cambiamenti. O la politica resterà travolta da se stessa. Per sempre.

Il fantasma di Samuele Piccolo nel giallo delle elezioni regionali

Samuele-Piccolo-02_fullSono molte le versioni che ancora si rincorrono sul perché il Pdl non riuscì a presentare la lista alle elezioni regionali del 2010. Una di queste ha sullo sfondo il consigliere comunale finito oggi agli arresti domiciliari: fu per togliere in extremis il suo nome dalla lista che il partito di Berlusconi si presentò in ritardo in tribunale. Lui commentò: “Se fosse vero sarebbe di una gravità unica”. Oggi un colpo pesantissimo alla brillante carriera del giovane politico

Dopo il pasticcio, Renata Polverini convoca la conferenza stampa e dice: “Vinceremo lo stesso”. E’ una chiamata alle armi al popolo di centrodestra, un invito all’ottimismo. Avrà ragione. E Renata Polverini diventa governatrice del Lazio. Ma cos’era successo? La lista del Pdl era appena rimasta esclusa dalle elezioni regionali nella circoscrizione della Provincia di Roma. Un mistero mai del tutto chiarito, fatto di ricorsi, scambi di accuse, dichiarazioni furibonde alla stampa, minacce più o meno velate. E un convitato di pietra: Samuele Piccolo, il consigliere comunale arrestato oggi per associazione per delinquere e finanziamento illecito ai partiti.

LA STORIA – Sono le 12 dell’ultimo giorno utile per depositare in tribunale le liste per le elezioni regionali. Si presentano a piazzale Clodio i due incaricati del Pdl di Roma: sono Alfredo Milioni, il presidente del municipio XIX, e Giorgio Polesi. Si mettono in fila. Poi succede qualcosa, perdono tempo, fanno tardi e la lista viene esclusa (nessun ricorso riuscirà a farla riammettere nonostante in quelle ore il Pdl con il responsabile elettorale Ignazio Abrignani ostenti fiducia: “’non c’è nessun motivo per escluderci”).

IL RACCONTO DI MILIONI – ”Non mi hanno fatto rientrare, hanno fatto i matti, si sono messi a urlare, mi hanno spinto… Mi hanno minacciato, altroché. Qui si configura pure un reato”. Così in un’intervista al Corriere della Sera Alfredo Milioni dà la sua versione dei fatti per evitare il linciaggio pubblico – dentro e fuori il partito – a cui è sottoposto. E aggiunge: “Polesi è rimasto in fila – dice – mentre io passeggiavo fuori”. In quelle ore s’è detto che era uscito a mangiare un panino. “Quando sono entrato per prendere il posto di Polesi, lui si e’ chinato per darmi tutta la documentazione e abbiamo visto uno col telefonino che ci stava fotografando. Uno che si e’ definito radicale. Abbiamo iniziato a discutere e, litigando, ci siamo trovati fuori dalla linea Maginot. E’ stato creato ad arte un subbuglio per impedirci di presentare la lista. Io – ribadisce – non ho sbagliato niente”.

MA C’E’ UN’ALTRA VERSIONE – Ma non tutti credono a questa storia. E su come siano andate le cose ci sono molte versioni. Una la fornisce il senatore Mario Gasbarri, del Pd, che racconta: ”Ero presente – racconta – al Tribunale di Roma e ho potuto filmare l’episodio con il cellulare. Posso perciò documentare che intorno alle ore 14, quindi due ore oltre il limite di tempo consentito, le firme non erano state consegnate e giacevano abbandonate in un corridoio”. Poi c’è almeno una terza ricostruzione e riguarda Samuele Piccolo. Si racconta nei corridoi della politica che Milioni proprio mentre stava per presentare le liste abbia ricevuto una telefonata con un ordine ben preciso: il nome di Samuele Piccolo – mr preferenze, indipendente e quindi candidato scomodissimo per la lista di ex An ed ex Forza Italia – deve uscire dalla lista. Un colpo gobbo da compiere all’ultimo momento utile, quando ormai resterà solo il tempo delle recriminazioni.

SAMUELE PICCOLO – Samuele Piccolo non si scompone quando viene a sapere di questo fatto. E commenta con Affari italiani: “Quando ho letto che la lista del Pdl sarebbe stata presentata in ritardo perché qualcuno voleva cassare il mio nome in extremis per sostituirlo con quello di chi non si sa bene di chi, sono rimasto senza parole. Se fosse vera sarebbe di una gravità unica”. E aggiunge: “Spero si tratti di una semplice voce o di un pettegolezzo dell´ultima ora”. “Che il mio nome entrava e usciva dalla lista lo sapevano tutti. Ma siccome io non avevo chiesto di essere inserito nel listino bloccato, ma di misurarmi con il consenso, ho sempre pensato che alla fine ce l’avrei fatta”. E ricostruisce i fatti. Dice di essere andato la mattina alla sede regionale del Pdl insieme a suo fratello, di avere verificato in presenza dei coordinatori regionali e di quello romano la sua presenza in lista, di essersi accertato che non mancavano i certificati. Insomma, “Era tutto ok”. Poi il fattaccio. E se qualcuno ha voluto farlo fuori, ha fatto un danno all’intero Pdl. Poi la vittoria di Renata Polverini ha messo una pezza. Oggi un colpo pesantissimo alla carriera politica del giovanissimo consigliere comunale inventore della “festa dei nonni”. Commenta Samuele Piccolo i fatti delle regionali del 2010: “Bisogna dire la verità a tutti i cittadini del Lazio e alle migliaia di romani che mi hanno sostenuto alle precedenti elezioni”. Parole che oggi varrebbero ancora di più.