Incontro con Davide Enia

È il drammaturgo e attore palermitano Davide Enia il terzo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

 

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Se parla del mix di tradizioni presenti in Sicilia ti illustra la ricetta dell’arancina. Se gli chiedi un riferimento per far ripartire il cammino interrotto del Sud lui pensa al Palermo calcio. Non capisci subito dove voglia arrivare, ma alla fine il senso del suo ragionamento ti sembra l’unico possibile.
È piacevolmente spiazzante parlare con Davide Enia, 36enne attore e drammaturgo palermitano. Ti dice della cucina e del calcio – le sue passioni – e ti sta raccontando un mondo intero. Non solo. Quando parla dà fino in fondo l’idea di essere sincero: quando racconta di sé, del suo lavoro, della sua città. Forse è per questa sua irritualità che le sue opere, nate a Palermo e «pensate in palermitano», sono state capaci di parlare a mezzo mondo e tradotte in sette lingue. Enia ha grandi meriti artistici. Tra questi, sicuramente, quello di avere reso contemporaneo il linguaggio del racconto, del cuntu. È stato una delle modalità che ha scelto per praticare il sud (ci abita, ci lavora, ne subisce le influenze, lo racconta) confrontandosi con il mondo. Glielo fai notare, e lui si schermisce: «Parliamoci chiaro: quello era un teatro che si poteva fare con due soldi. E io ogni mese dovevo pagare l’affitto », rileva.
Un percorso originale, che merita di essere raccontato. Lui si presta in una pausa di lavoro. Sta scrivendo un romanzo. «Nessuno vive di teatro in Italia. Il teatro è morto e mi hanno fatto un’offerta interessante: ero disoccupato e l’ho accettata. Questo non sposta di una virgola la dignità di quello che faccio, la passione, l’importanza». Unica concessione sul romanzo insieme al fatto che uscirà nel 2011. Poi si torna a parlare di meridione. Per smontare pezzo dopo pezzo tutti i luoghi comuni. A partire dallo stesso concetto di sud: «È un’espressione geografica schiava della logica cartografica con cui guardiamo le cose», osserva deciso. E proprio partendo «da questo assunto sbagliato che abbiamo legittimato logiche discriminatorie e creato barriere inesistenti». Se poi il riferimento è al sud come «luogo letterario» va anche peggio: «Ha fatto danni incredibili: è frutto della vigliaccheria di chi si rifiuta di confrontarsi con gli altri», è «il sintomo dell’incapacità politica», ha creato le condizioni per «abbandonarsi al fatalismo». O magari ha fatto credere, come si usa dire banalizzando, che «in Sicilia si potrebbe vivere solo di turismo: una bugia incredibile». Basti pensare «all’assenza di infrastrutture» o alle eccellenze artistiche e del territorio «completamente abbandonate». E allora la conclusione non può che essere una: «Smitizzazione questo luogo» partendo dal fatto che «se vuoi capire il sud devi andare a vedere cos’è il nord». Non è un concetto scontato quello del confronto: «Troppo pochi siciliani» lo cercano. È sufficiente pensare «ai produttori di vini: quanti sono quelli che vanno all’estero? – sottolinea – È pavidità mascherata dalla convinzione sbagliata di essere i migliori». Probabilmente è per questa sintesi perversa di ragioni che vale il detto “cu niesce, riniesce”, «interpretazione dialettale del “nemo propheta in patria”».

Ce l’ha fatta invece Davide Enia. Scegliendo Palermo «perché è la mia città, perché avevo i miei affetti – racconta – perché è accogliente». Perché racconta un mondo che sta dentro le cose che Enia scrive e porta in scena. E poi c’è il dialetto («il mio primo linguaggio»), che tiene insieme «ritmi, gesti, silenzi, smorfie, mezze parole», che è «l’urgenza che perde il barocco», che ha «la grande fortuna di fare ridere».
Eppure questa Palermo così «struggente e lancinante», oggi «non è più un posto bello in cui vivere». Pertanto confessa: «Sto ripensando molto al mio stare qui – spiega – non ho vocazioni alla perdita di tempo. Non si cambia il mondo, bisogna fare bene il proprio lavoro». Non è tristezza, è che non ne può più. A fare le cose difficili in fondo c’era già abituato Davide. «C’è uno svantaggio innanzitutto economico per chi fa l’attore a Palermo», sostiene, e poi c’è il deficit di stare lontano da Roma e dai luoghi “politici” del teatro. Tuttavia fino a poco tempo fa, Enia non aveva dubbi: a Palermo stava accadendo qualcosa e lui ne era protagonista. Rivendica infatti con grande orgoglio che, «senza nessun aiuto istituzionale qui sono nate due realtà che si sono imposte in campo internazionale. Non era mai successo». Il riferimento, oltre che a se stesso, è a Emma Dante, straordinaria autrice e regista. «Avevamo talento e abbiamo deciso di puntarci tutto», dice. Un gesto di coraggio senza paracadute («non avevamo una lira») e «l’ostinazione e la presunzione di considerare il tuo lavoro valido ed esportabile». È questo uno dei frutti più autentici di una generazione particolare, quella di chi ha attraversato gli anni 80, «in cui c’era un’ammazzatina al giorno», e quella che ha sentito con le proprie orecchie le bombe degli anni 90. «In una totale assenza di senso – dice – abbiamo costruito un forte contenuto di senso». Non si è trattato di casi isolati: dagli attori cinematografici, ai musicisti palermitani che per tre anni consecutivi hanno vinto Arezzo Wave. «C’è stata una grande esplosione dei talenti, l’ultimo colpo di coda: non so quando ricapiterà». Nel frattempo questa situazione favorevole, e forse irripetibile, di creatività, fermento e passione ha subito una devastante battuta d’arresto. Che secondo Davide Enia ha un nome e un cognome: Diego Cammarata, sindaco da quasi dieci anni della città di Palermo, uomo di Silvio Berlusconi. L’attacco di Enia è pesante e lucido. «Dall’arrivo della giunta Cammarata, otto anni fa, c’è stata l’ostentazione dell’incapacità, dell’ignoranza, del menefreghismo». Chi amministra non ha «nessuna idea di futuro, ignora la realtà, crea un’immagine di un luogo inesistente come salvagente per la propria mediocrità».
Anche il poco di positivo rimasto «è stato letteralmente sbranato a carne cruda, abbassando in maniera preoccupante l’asticella della decenza». Il risultato è che «oggi il palermitano si “accolla” tutto». Non fa sconti, Enia. Affonda i colpi: «La città è una fogna e nessuno ha l’onestà di ammettere come stanno le cose o di assumersi le responsabilità». E invece le responsabilità sono chiare: «Chi ha guidato la città in questi anni? Chi ha sbagliato tutte le scelte sul traffico e i rifiuti?». Cammarata è il responsabile primo, ma l’attore palermitano non dimentica che «questa amministrazione è stata votata da più della metà dei miei concittadini» e che «non mi pare di vedere nessuna indignazione o sacrosanta rabbia rispetto allo stupro continuato della nostra città. Qui c’è rassegnazione tacita». E nessuna indulgenza. Insomma, «stiamo andando a rotoli».

Tuttavia ci sono passioni e stimoli da cui ripartire. Ne è convinto Davide Enia: «Il Palermo gioca il più bel calcio d’Italia, restituisce un’idea di bellezza e tiene vivo un fortissimo orgoglio anche da parte di chi se n’è andato». E poi c’è l’eccellenza della gastronomia «che dovrebbe essere più consapevole. Non riesco a credere che non esiste nulla a tutela di cibo, vini, tradizione, cibo di strada». Non si capacita del fatto che «la politica sia così miope rispetto a tutto questo». La Sicilia «è un piccolo continente, raccoglie tremila anni di tradizioni». Si ferma un attimo. Poi riprende, con una grazia sorprendente: «Un cibo popolare può racchiudere storie e tradizioni di migliaia di anni. L’arancina tiene dentro di sé il riso dell’Asia, lo zafferano dell’Afghanistan, il pomodoro dell’America, il ragù della Francia, la panatura del Maghreb». C’è un mondo dentro l’arancina, che la Sicilia però può perdere. Se non recupera il senso di essere isola, il rapporto con il mare, la consapevolezza di stare al centro del Mediterraneo, l’apertura agli stranieri. Ecco la Sicilia secondo Enia. Allora da dove ripartire? Lui ci pensa un attimo: «Da Ciccio il Sultano, al Duomo di Ragusa Ibla, e da Pino Cuttaia a “La Madia” di Licata», risponde sicuro. Spiega: «Mangiando in questi due ristoranti si può conoscere davvero l’eccellenza e l’enorme potenzialità del nostro territorio, imparando da chi in silenzio compie una grande opera culturale». Per dopo pranzo, «un bicchiere di Vecchio Samperi, di Marco di Bartoli, cioè il marsala come dovrebbe essere». Ovvero i sensi come fondamento dell’identità meridionale.
Pubblicato su Terra il 12 dicembre 2010

Incontro con Dario De Luca

L’attore e autore teatrale calabrese Dario De Luca, fondatore con Saverio La Ruina della prestigiosa compagnia Scena verticale, è il secondo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
dario de luca

Ci sono alcune cose che già pensarle diventa un’impresa. Cose su cui nessuno scommetterebbe un centesimo. Una di queste cose è quella di decidere di fare teatro in Calabria. Nuovo teatro e ricerca, di organizzare un festival. E invece a volte può accadere: che fai nascere una compagnia e che diventi subito riconoscibile, che la tua poetica sia in grado di raccontare un territorio oscuro e inedito come la Calabria, che un dialetto sconosciuto e complicato diventi lingua teatrale, che organizzi una rassegna che diventa ambita e apprezzata. È accaduto in Calabria, a due attori e autori. Si chiamano Dario De Luca e Saverio La Ruina e 18 anni fa hanno fondato Scena verticale (alla compagnia, come organizzatore, qualche anno dopo s’è aggiunto Settimio Pisano). Una storia che va raccontata. Per “Creatività meridiane”, il viaggio del Domenicale di Terra attraverso idee, pratiche e memorie per costruire una nuova identità meridionale, lo fa Dario De Luca. Che parte dall’inizio: Scena verticale «nasce per un’urgenza come tutte le cose che facciamo – spiega Dario – nasce dall’esigenza che avevamo di fare teatro in Calabria. Il nostro percorso creativo e la nostra poetica nascono da un’utopia lavorare nella periferia dell’impero, investire sui nostri luoghi invece che a Roma, nella Romagna felix o a Milano». Dario e Saverio si conosco lavorando a un progetto teatrale che chiude dopo un solo anno. Si conosco e si riconoscono, capiscono che è l’ora di mettersi in gioco nonostante il momento sfavorevole. Racconta: «Tutti ci dicevano che non era il caso», ricorda. In Calabria le strutture erano chiuse o annaspavano, a Roma «era stato appena soppresso il ministero». Non si scoraggiano Dario e Saverio, sentono «l’urgenza» (un termine che ricorre spesso durante la conversazione) di fare, presuntuosamente pensano che «in un territorio vergine come la Calabria si poteva creare una comunità teatrale». E si buttano nella mischia. Per prima cosa si mettono a fare «tanto teatro ragazzi perché è una palestra formidabile visto che a quel tempo c’era molto poco spazio per esibirsi, c’erano pochi teatri, pochi organizzatori, poche stagioni». Ma c’è anche un’altra ragione: «Pensavamo di creare il pubblico del futuro».

Il ragionamento, apparentemente strano, ha un suo fondamento: «Quando usciamo dal cinema, dopo aver visto un film, tutti ci sentiamo giustamente in diritto di commentarlo, di dire la nostra. Ne abbiamo l’abitudine, l’abbiamo acquisita da piccoli». Bene, secondo Dario, bisogna fare lo stesso con il teatro: «Bisognerebbe creare il teatro dell’obbligo, creare la curiosità e l’abitudine, evitare che ci si trovi a dire che il teatro è noioso, che non si capisce, non si conosce. Se vedi uno spettacolo da ragazzo ti sembra più normale andare a teatro da grande».
Va avanti così per alcuni anni. Fino al 1996, quando c’è un nuovo inizio per Scena verticale: Dario e Saverio iniziano «a ragionare su un percorso e un progetto autonomo». È l’anno del primo spettacolo “scritto, diretto e interpretato” da De Luca e La Ruina. Si intitola “La stanza della memoria” contiene dentro di sé i germi della poetica, dei temi, dei linguaggi di Scena verticale. È l’inizio «del nostro percorso artistico vero e proprio: comincia il racconto della Calabria delle mille contraddizioni che viviamo giornalmente, di una terra straordinaria che ti dà e ti toglie». Lo spettacolo, «affettivo e ironico», racconta di un mondo contadino che è andato perduto e che è stato sostituito dal nulla. E poi in questo spettacolo c’è per la prima volta la trasformazione del «nostro dialetto in lingua teatrale». È la svolta. Che si consolida con la presenza dello spettacolo De-Viados a Teatri 90 e che esplode con il progetto ambizioso della trilogia calabro-scespiriana «che racconta di vuoti esistenziali, della incompiutezza di noi calabresi, della tristezza che abbiamo negli occhi, della nostra incapacità di prenderci cura del bene comune». Vanno in scena “Hardore di Otello”, “Amleto ovvero Cara mammina” e “Kitsch Hamlet”, spettacoli apprezzati dal pubblico e dai critici. Dopo aver visto un loro spettacolo al festival di Sant’Arcangelo di Romagna, Goffredo Fofi «attesta l’importanza della nostra compagnia come esperienza di un teatro che viene pensato come pensiero meridiano», ricorda con orgoglio Dario.
Poi la compagnia porta in scena due straordinari spettacoli di Saverio La Ruina: “Dissonorata” e “La Borto”. «Raccontano di una comunità femminile umiliata e offesa, raccontano cose del nostro villaggio che diventano grido di dolore universale delle donne». Per “Dissonorata” La Ruina si aggiudica due premi Ubu (il più importante premio del teatro italiano) nelle categorie “Migliore attore” e “Nuovo testo italiano”. Per “La Borto” oggi è nella terzina finalista insieme a due mostri sacri come Alessandro Gassman e Fabrizio Gifuni.
A Scena verticale va anche dato il merito di aver portato in scena la ‘ndrangheta. È uno spettacolo scritto e diretto da Dario questa volta: si intitola “U Tingiutu. Un Aiace di Calabria”. «Sentivo l’esigenza – spiega – di avviare una riflessione su questo tema, di cominciare a parlare di ‘ndrangheta sul palcoscenico di un teatro. È una ferita ancora aperta – chiarisce – non è facile entrare in questa cosa, scegliere il modo. Il lutto non è stato ancora elaborato, si ripete, si reitera. Non abbiamo la distanza giusta per parlarne con lucidità, forse per questo mi sono fatto aiutare dal mito greco» che infatti attraversa tutto il bellissimo spettacolo.
È un percorso pieno di curve eppure molto coerente quello della compagnia calabrese, il percorso di chi ha deciso di restare in Calabria e tuttavia non s’è mai chiuso nelle proprie certezze: «Ci siamo sempre posti il problema del confronto con le realtà nazionali», dice Dario. Anche per questo forse sono riusciti a vincere la loro scommessa. La prima. Eppure quando chiedi a Dario De Luca quando è il momento in cui hanno pensato di avercela fatta, lui risponde secco: «Ancora non l’abbiamo detto». Poi aggiunge: «Certo oggi ci sentiamo di far parte di più della comunità teatrale italiana, ma è tutto davvero fluttuante». In questo senso forse influisce non avere un proprio teatro. «Avere una casa – spiega – significa avere una riconoscibilità diversa. Ne è un esempio il Teatro Piccolo di Milano che riesce a essere se stesso anche dopo aver perso Paolo Giani e Giorgio Streheler. Avere un teatro significa far sì che rimanga qualcosa».

Forse è anche per questo che Scena verticale non produce solo spettacoli, ma ha deciso nel 1999 di dare vita a un festival. A Castrovillari, provincia di Cosenza, anche questo provincia dell’impero teatrale. «Partecipammo al bando dell’Eti, l’Ente teatrale italiano – ricorda De Luca – proponendo l’ipotesi di un festival del nuovo teatro al sud con l’intento ambizioso di farlo diventare un polo del teatro contemporaneo italiano». È un bando importante. Alla fine vince Scena verticale insieme a due mostri sacri come Gabriele Vacis e Leo De Bernardinis. Un’occasione imperdibile. Primavera dei teatri diventa subito un appuntamento importante. «Siamo diventati una realtà riconosciuta e riconoscibile e dopo 11 edizioni possiamo dire di avere assicurato la continuità: non era per nulla scontato in Calabria», dove gli enti locali sono impegnati a sostenere decine di generiche e spesso inutili sagre paesane. «Ma la cosa di cui siamo molto orgogliosi – sottolinea Dario – è di essere stati una sorta di avamposto: siamo arrivati prima di molti altri con molti spettacoli, molti attori, molte compagnie, abbiamo ospitato cose che solo dopo sono diventate importanti. È successo con Emma Dante, con Ascanio Celestini, persino con alcuni spettacoli di Fabrizio Gifuni».
Un’altra scommessa vinta in questo Sud pieno di contraddizioni. «A volte penso che siamo ancora al Regno delle Due Sicilie, nonostante la tanto sbandierata unità d’Italia, nonostante i 150 che stiamo per festeggiare – polemizza – È una situazione complessa: troppo spesso ci sentiamo sudditi non veri cittadini dell’Italia». Una considerazione amara. Che vale per tutto il Sud anche se di Sud ne esistono molti: «Siamo diversi e abbiamo problematiche differenti», ma c’è una cosa che «ci lega: la sofferenza», non ha dubbi Dario. «È per questo che ci riconosciamo sempre e comunque. È atavica, l’abbiamo nei segni del viso, nel nostro agire ostinato», dice. Anche per la sofferenza ci sono reazioni differenti: «A volte diventa piagnisteo, richiesta d’aiuto servile». E invece no. Invece «esiste anche un Sud che prova a raccontarsi e che con dignità e orgoglio prova a essere protagonista del proprio agire». Un nuovo inizio per il nostro Paese con alcuni punti di riferimento: innanzitutto «le lezioni sulla Costituzione di Calamandrei». Poi i discorsi di Fausto Gullo, storico comunista calabrese della Costituente, «un politico lucido che aveva una grandissima forza e pulizia intellettuale». E propone anche di andarsi a rileggere il libro “Sull’identità meridionale” di Mario Alcaro, filosofo e docente dell’università della Calabria. Letture che devono servire a rimettere in campo «le passioni dei giovani. È per questo – insiste Dario – che non ho mai smesso di fare laboratori nelle scuole». Con che risultati è presto per dirlo. Di certo, sottolinea «se ci stai in una terra devi provare a impegnarti per renderla migliore. Altrimenti – dice – in posti come la Calabria non è neanche il caso di rimanere ed è meglio andare via». E invece «io penso che bisogna che al sud ci riprendiamo in mano nel nostre vite». Ognuno per la sua parte.

Pubblicato sul quotidiano “Terra” 5 dicembre 2010

Winspeare: Siamo una bella nave allo sbando

Con il regista pugliese Edoardo Winspeare parte “Creatività meridiane”, un ciclo di incontri con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. È il tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
Il ciclo di incontri “Creatività meridiane” è fatto per il quotidiano ecologista Terra.

Edoardo Winspeare è un regista meridionale e un personaggio anomalo per i canoni del Sud per molte ragioni. Innanzitutto, la più banale: il cognome che porta, segno di una storia del tutto particolare. Winspeare è nato in Austria, originario di una famiglia nobile e cattolica dello Yorkshire che si trasferisce nel regno di Napoli in seguito a una guerra di religione. Cresce nel Salento. Poi decide di studiare cinema e si trasferisce a Firenze, quindi a New York, poi ancora a Monaco di Baviera. Alla fine di un lunghissimo giro per il mondo decide di tornare in Salento e di vivere a Corsano, in provincia di Lecce.

Ci sono anche altre ragioni che fanno di  Edoardo Winspeare un artista sui generis. La prima riguarda i suoi film. Si tratta di opere – da “Pizzicata” a “Sangue vivo”, da “Il miracolo” a “I galantuomini” – che hanno girato con successo i festival di mezzo mondo, ma soprattutto hanno la capacità di raccontare, da dentro, l’anima più vera un pezzo prezioso del nostro Mezzogiorno, il tacco dello Stivale, il Salento. Poi perché a Winspeare girare film sembra non bastare. È un ottimo musicista e una decina d’anni fa ha fondato e animato la band Zoe e ha deciso di fare il produttore (è socio con Gustavo Caputo di Saietta Film) scegliendo di continuare a vivere in Puglia. Una scelta in parte antieconomica «visto che il cuore del cinema sta a Roma o al limite a Milano» e che gli costa il prezzo, confessa, «di  fare e produrre sicuramente meno film, di fare molta più fatica a trovare i soldi».
C’è poi la sua scelta – per nulla scontata – di mettersi in gioco. Come animatore culturale e come promotore di un percorso di rivendicazione di diritti che ha avuto il suo culmine cinque o sei anni fa, quando Edoardo Winspeare lancia la sua battaglia ambientalista per difendere il territorio dal cemento selvaggio. Lancia un’idea e un progetto apparentemente strampalato: comprare ecomostri, per abbatterli. La sua eresia, forse addirittura la sua pazzia, diventa l’associazione Coppula tisa, dal nome della lucertola salentina. Quella di Winspeare è una provocazione, concreta e intellettuale, che molto ha da dire sull’idea di Sud che dovremmo avere. Sono anni in cui vengono a galla centinaia di brutture illegali in ogni parte d’Italia e in cui la politica e le amministrazioni – come oggi, per la verità – sono sorde di fronte al richiamo, alla necessità, del bello. Il regista salentino chiama a raccolta la società civile, i cittadini, parte una colletta che corre come un treno e nel giro di pochi mesi un ecomostro di Tricase viene acquistato, abbattuto e il terreno viene restituito ai cittadini: «Oggi lì c’è il parco della cittadinanza attiva». Un piccolo grande risultato, senza neppure un euro degli enti pubblici, che serve da monito per la politica, che può rappresentare un modello per costruire un’altra identità nel territorio pugliese martoriato dall’abusivismo, come tutto quello meridionale («l’unica industria che funziona al sud è quella dell’edilizia», commenta amaro Winspeare).
Un regista e un intellettuale anomalo, fuori dagli schemi, molto meridionale e molto cittadino del mondo. Un buon punto di partenza per un viaggio – Creatività meridiane – che il domenicale di Terra vuole condurre in giro per il Sud alla scoperta di memorie, idee e pratiche per ragionare attorno a una nuova e originale identità meridionale. Winspeare è molto contento di partecipare a questo ragionamento. «Dobbiamo parlare di Sud? È l’unica cosa che so», esordisce divertito.

Si può partire da una definizione allora: «Siamo una bellissima nave senza nocchiero, una nave alla deriva», sentenzia. Poi aggiunge subito: «Oggi complessivamente il sud è peggiorato, ma visto che siamo a livelli così bassi non si può fare altro che risorgere. E mi pare che ci sono buoni segnali».
Dice: «Il Sud deve emanciparsi. Prima doveva farlo dai francesi o dagli spagnoli, adesso da ‘ndrangheta, cosa nostra, camorra e sacra corona». L’osservazione immediatamente successiva è che «ci sono politici del tutto irresponsabili. Io al loro posto sarei preoccupatissimo – insiste – invece vedo che non c’è nessuna ansia di fare cose buone e direi che si cammina troppo a braccetto con il malaffare». Per emanciparsi il Mezzogiorno, secondo il regista salentino, deve «prendere coscienza di quello che può dare, della sua storia, delle sue capacità economiche», deve cioè considerare che «siamo al Sud dell’Europa, ma siamo anche al centro del Mediterraneo». E lancia subito il suo primo obiettivo: «Recuperare Napoli», perché «se si recupera una grande città come Napoli ci sarà un effetto trascinamento che servirà a tutti».
Winspeare spiega a chiare lettere che non si tratta solo di un problema delle regioni meridionali, ma è una questione centrale che riguarda il Paese intero. «Noi abbiamo perso il nostro Sud – rimarca – ma anche l’Italia l’ha perso» e invece avrebbe dovuto «approfittarne». Approfittare della posizione strategica che il Mezzogiorno ha, della funzione di ponte che può avere «con l’Africa, i Balcani», con Napoli che «deve essere la nostra Costantinopoli». Paradossalmente invece non solo il Sud non rappresenta questo punto di riferimento, ma si allontana dall’Italia, si allontana persino da se stesso: «Al Sud nessuno conosce nessuno – spiega Winspeare – Per arrivare da Lecce a Reggio Calabria devo prendere tre o quattro treni, impiego 12 ore. Per arrivare a Torino o a Milano prendo un aereo e ci arrivo in un paio d’ore». Insiste nel suo ragionamento chiarendo che tra le diverse realtà del Sud «non c’è scambio commerciale e culturale, ci sono pochi intellettuali e la maggior parte di loro non vede l’ora di andare via, non ci sono mostre, eventi, una vera casa editrice». Un ragionamento che Winspeare fa «da pugliese e, quindi, da chi in questo momento sta messo meglio degli altri».

Non è un pessimista Winspeare, non si capirebbe altrimenti perché ha deciso di restare. E allora prova a fare una scala di priorità che possano essere alla base di una «rivolta positiva del Sud». Bisogna perciò «partire dalla cultura, dall’ambiente e dai giovani». Serve una «rivoluzione ambientale» che significa «cura del nostro straordinario territorio, della nostra cultura, del lavoro dell’uomo», bisogna insomma «valorizzare la bellezza». Indica anche dei punti di riferimento, «dei maestri a seconda degli orientamenti politici: Salvemini per i socialisti, don Tonino Bello per i cattolici, Borsellino per i conservatori». E pone l’accento anche su due periodi storici, da riprendere in mano per provare a ripartire: «Il Seicento dei calabresi con i suoi santi eretici e visionari» e, più recentemente, «gli anni Cinquanta in cui operavano personaggi come Ferruccio Parri o De Gasperi che… si comportavano bene». E ce ne sono anche degli altri punti di riferimento: «Gli eroi quotidiani, cioè le persone che fanno ogni giorno bene il proprio lavoro, quelli che, per dirla con Borges, stanno salvando il mondo». Certo nessuno, nemmeno il regista pugliese, vuole raccontare un mondo che non c’è. Si tratta di intervenire in quello che non funziona: nei trasporti, nella politica, nelle buone pratiche. Si tratta di «lamentarsi di meno e darsi da fare», di «liberarsi dal pregiudizio che riguarda i meridionali – come avviene per le donne, che sono costretti a essere i più bravi, i più brillanti, i più trasparenti» per farsi strada, di superare la «pigrizia intellettuale» degli italiani e l’abitudine dei media di privilegiare «le idee semplici e preconcette per comunicare». Il Mezzogiorno d’Italia è «complesso, frutto di cinquemila anni di civiltà, con molte cose da scoprire». Un discorso che riguarda un intero territorio. «Per me il Sud sta tutto insieme e penso che per il Sud oggi valga davvero la pena di combattere – dice – e lo dico a costo di sembrare nostalgico». E questo perché «è vero che il Sud si sta prostituendo al consumo, ma ancora conserva un senso di comunità, un’anima che non dobbiamo perdere sull’altare dei neoricchi consumisti». Ci sono delle isole nel nostro Mezzogiorno che «dobbiamo difendere dal rischio che la piovra le inglobi perché dire che tutto è mafia significa dire che niente lo è: e poi si ha il gioco dei clan». In questo ragionamento Winspeare fa una precisazione: «È vero che noi abbiamo la mafia – sottolinea – ma è anche vero che nel Mediterraneo siamo gli unici a non avere problemi etnici o di fanatismi: siamo accoglienti, ci sono episodi nella nostra storia di tolleranza, amicizia», dice riferendosi anche a quelle straordinarie storie dei pugliesi cha accolgono gli albanesi e i calabresi che aprono le porta ai curdi o ai palestinesi. Tutto questo, secondo Winspeare, «può rendere molto più facile avviare un percorso di cambiamento delle cose». Ecco perché gli viene fuori dal flusso del ragionamento la suggestione di fare del Sud «l’Arca della pace», della cultura, della cura del territorio, del rispetto per l’uomo. Eccolo il Sud di Winspeare: «Un posto da cui partire, certo. Ma anche un posto in cui arrivare». Con Napoli a fare da capitale.

(Pubblicato sul quotidiano Terra il 28 novebre 2010)

Annunziata, uccisa per questione d’onore e dimenticata

di DANILO CHIRICO E ALESSIO MAGRO

Per molto tempo ha vissuto nascondendosi, forse vergognandosi. Poi l’hanno ammazzata, per una questione d’onore. E per trent’anni è svanita. Persino dal ricordo delle persone. Non ha avuto una storia, una faccia, semplicemente il proprio nome. Tutto è andato perso dentro la memoria corta e colpevole della Calabria. Oggi, da morta, le arriva un piccolo e certamente insufficiente risarcimento. Da morta, si riappropria di sé: si chiama Annunziata Pesce, è stata uccisa nel 1981. A “riportarla in vita” un’altra donna, un’altra Pesce. È Giuseppina, la pentita della cosca. La giovane donna che ha svelato le trame perverse che regolano la vita del clan, la vita dei rosarnesi. E che ha raccontato questa storia lontana, dimenticata. Un contributo prezioso – insieme a quello degli altri ‘ndranghetisti che hanno iniziato a collaborare in questi mesi – per il lavoro importantissimo che stanno conducendo i magistrati di Reggio Calabria che, non a caso, sono diventati spesso oggetto di minacce e intimidazioni.
Annunziata era colpevole di avere amato un carabiniere. Un’onta che una cosca come quella dei Pesce proprio non poteva accettare. E pazienza se per conservare l’onore è necessario uccidere il sangue del proprio sangue.

Nel libro “Dimenticati. Vittime della ‘ndrangheta”, pubblicato lo scorso ottobre, abbiamo raccontato la storia di oltre 250 morti ammazzati dalla ‘ndrangheta negli ultimi decenni. Minuziosamente abbiamo provato a recuperare piccole e grandi storie di donne e uomini uccisi e che lo Stato, la Calabria, il proprio piccolo paese, i vicini di casa hanno dimenticato. Un lavoro doloroso, che consideravamo e consideriamo necessario per provare a ricostruire – pezzo dopo pezzo – un’identità nuova per la Calabria che non può prescindere dalla memoria e dal senso di sé. Un intero, e lunghissimo capitolo, di questo libro è dedicato all’onore (e al disonore). Perché consideriamo necessario riscrivere il senso di questa parola che cambia colore e significato a seconda della persona che la pronuncia. L’onore è tutto per lo ‘ndranghetista, e il metro con cui si giudica un uomo d’onore poco ha a che fare con le regole civili. E troppo spesso onore fa rima con dominio sessuale. E se le donne hanno trovato, combattendo, la loro liberazione, il partito dell’onore è ancora vivo e vegeto, trasversale, potente, radicato al nord e al sud. In questo contesto si inserisce la ‘ndrangheta, custode arcaica e moderna di questo malinteso senso dell’onore.

Annunziata Pesce ha tradito l’onore due volte. Ha avuto una relazione extraconiugale. E, quel che è peggio, l’ha avuta – lei figlia di una famiglia di rispetto – con un carabiniere, uno sbirro. Nel libro “Dimenticati” c’è anche la storia di Annunziata, la più dimenticata tra i dimenticati. È quasi un fantasma nelle righe che le abbiamo dedicato, perché di un fantasma si tratta nel senso comune della Calabria e dell’anti-‘ndrangheta. Così abbiamo raccontato la sua storia senza sapere quale fosse il suo nome di battesimo. Ci abbiamo provato a scoprirlo, abbiamo chiesto e non abbiamo avuto risposte. Nessuno ne aveva memoria. Abbiamo deciso di scrivere lo stesso della sua storia, della sua decisione di violare l’educazione sentimentale della famiglia. Proprio mentre chiudevamo il libro, siamo riusciti a scovare le dichiarazioni dello storico e controverso pentito Pino Scriva, boss della Piana di Gioia Tauro. Ha raccontato che prima di farla fuori l’hanno seguita per avere la certezza del “tradimento”, scoprendo che incontrava l’amante in una pensione sulla costa tirrenica. Nelle sue dichiarazioni del 13 dicembre 1983 Scriva sostiene che la figlia di Salvatore Pesce, fratello del boss Peppe, e proprietario di una ruspa utilizzata per il movimento terra, è stata «sequestrata a Bagnara per motivi d’onore. La ragazza, sposata, aveva una relazione con un carabiniere di Rosarno e ciò per l’ambiente è fatto di particolare gravità». La ragazza «fu portata dai suoi fratelli latitanti e ivi uccisa e seppellita». Lo stesso Scriva ammette che i fatti gli sono stati raccontati, che la donna può anche essere stata mandata all’estero «evitando a Rosarno lo scandalo che si era creato». Una traccia. Adesso, in questa nuova e importante stagione di pentimenti, grazie alle dichiarazioni di Giuseppina Pesce e al lavoro della procura antimafia di Reggio, conosciamo un altro tassello di verità in questa storia agghiacciante.

La pentita ha raccontato di avere saputo, scrive Peppe Baldessarro su questo giornale di qualche giorno fa, «che “i sardignoli” (un braccio della famiglia) avevano una sorella sposata, Annunziata Pesce, la quale aveva avuto una relazione extraconiugale con un carabiniere». Di qui la decisione di ucciderla. Era l’aprile del 1981. A deciderlo sarebbe stato il vecchio boss Giuseppe Pesce, nonostante il tentativo dei “sardignoli” di risparmiarla. Secondo Giuseppina, «l’esecuzione della donna sarebbe stata eseguita da Antonino Pesce, 57 anni, e dallo stesso fratello della donna, Antonio Pesce di 47 anni». Perché per fare giustizia in questi casi è necessario che sia la stessa famiglia, che un familiare diretto sia presente.
È prezioso nel contrasto ai clan il contributo dei collaboratori di giustizia. Da questo punto di vista per Reggio s’è aperta una stagione che rischia di diventare storica dal punto di vista delle inchieste della magistratura e delle forze di polizia. Importantissime dimostrano di essere anche le dichiarazioni di Giuseppina Pesce che fanno chiarezza sulle cosche rosarnesi e riportano alla luce storie dimenticate. Che non sia l’occasione anche per avere nuovi e importanti elementi su un’altra storia dimenticata avvenuta a Rosarno qualche decennio fa: l’omicidio del segretario della sezione comunista del Pci Peppe Valarioti, ucciso a trent’anni l’11 giugno 1980.

(Pubblicato sul Quotidiano della Calabria il 28 novembre 2010)

L’altra Italia c’è già. E ha la camicia rossa

teano01TEANO (CE) – L’altra Italia c’è già. E oggi a Teano indossa la camicia rossa di Garibaldi. Soprattutto dimostra con grande semplicità e la giusta ambizione che vuole diventare l’Italia, per così dire, ufficiale. Perché già oggi opera concretamente sui territori, stravolge i dogmi della politica, concepisce l’amministrazione come strumento per valorizzare la vita delle persone, difendere il territorio, promuovere occasioni di lavoro buono.

«Stiamo assistendo a un piccolo miracolo», esulta Tonino Perna, il docente all’Università di Messina presidente del comitato promotore di un meeting che per quattro giorni mette a confronto amministratori, esponenti di associazioni e movimenti, intellettuali, cittadini. Per ricordare lo storico incontro tra Garibaldi e re Vittorio Emanuele II nel 150esimo anniversario e per provare a costruire una Italia unita su nuovi paradigmi politici ed economici, attorno a una nuova idea di democrazia.
Nuovi paradigmi contenuti in un decalogo che dice a chiare lettere che non è un reato accogliere i profughi e i migranti, che le energie rinnovabili sono una risorsa, che cultura, ambiente e territorio sono beni indisponibili, che le diversità locali sono il futuro del Paese, che le opere pubbliche non devono essere grandi ma semplicemente utili, che i pilastri su cui provare a costruire il Paese del ventunesimo secolo non possono che essere la solidarietà, la pace, la pari dignità tra uomo e donna, la scuola e la ricerca pubblica, la memoria delle migliori storie passate, l’antimafie. Belle parole e grandi ideali, certo. Ma la forza dell’appuntamento di Teano sta nella capacità di dimostrare che assieme allo studio, all’approfondimento, alle suggestioni intellettuali, ci sono – e funzionano – realtà che già applicano questi principi. Lo dimostra l’esperienza con i migranti dei comuni calabresi di Riace e Caulonia (con i sindaci Mimmo Lucano e Ilario Ammendolia), il racconto sull’acqua bene comune di Anna Maria Bigon che è a capo del comune di Povegliano Veronese, le testimonianze concrete dei sindaci Mario Cicero (Castelbuono, in Sicilia), Sabina Sergio Gori (Quarrata, in Toscana), Eugenio Melandri (Genzano, nel Lazio), Claudio Bertolat (Torre Pellice, in Piemonte), Luca Fioretti (Monsano), Rossella Blumetti (assessore del comune di Corsico, in Lombardia) che operano nel mondo dell’altra economia, dell’altro mercato, delle buone pratiche, della cooperazione decentrata. Lo dimostra la battaglia per “zero consumo del territorio” del primo cittadino di Lugagnano (in Lombardia) Domenico Finignana che ha elaborato un piano regolatore dove non c’è spazio per un solo metro quadro di nuovo cemento.
Certo, non è tutto oro quello che luccica. Basti pensare alla incredibile vicenda di Enzo Cenname primo cittadino di Camigliano, in provincia di Caserta, sollevato dall’incarico per “troppa” raccolta differenziata. Paradossale se si pensa che siamo a pochi chilometri da Terzigno. O basti pensare al racconto del sindaco di San Giorgio Morgeto (in provincia di Reggio Calabria) Nicola Gargano che, nella sua qualità di rappresentante dell’associazione degli enti locali contro le mafie Avviso pubblico chiede all’assemblea di Teano di assumere come primo punto del nuovo Patto per l’Italia la lotta alla criminalità organizzata. «Se non affrontiamo questo tema – tuona – raggiungere tutti gli altri risultati diventa impossibile». Inserire questa priorità nel decalogo «potrebbe somigliare a un’ammissione di una sconfitta, ma fare finta che il problema non esiste non aiuta a risolverlo. Anzi: ammettiamo la sconfitta e rimbocchiamoci le maniche. Combattiamo una battaglia per la giustizia e per non fare sparire i nostri piccoli comuni».
Tutto questo, molto altro, sta dentro il Patto (ancora al centro di un lavoro straordinario di discussione, limature, aggiunte, correzioni) che viene letto all’assemblea con il meridionale Mimmo Rizzuti, coordinatore della Sem (Sinistra euromediterranea) e la settentrionale Chiara Sasso, rappresentante della Recosol (Rete dei comuni solidali) a fare da cerimonieri davanti a un pubblico che si colora sempre di più di rosso: in tantissimi indossano la camicia garibaldina, quasi a voler rinnovare anche simbolicamente l’unità d’Italia di Teano. Un’unità che non sia più un’annessione del Sud al regno, ma un patto sincero e solidale tra pari che si contaminano e si mettono in discussione. Un percorso difficile. Ci prova, «seguendo il filo della mitezza», lo storico Paul Ginsborg a lavoro con altri studiosi lungo la strada che congiunge la “verità” storica come elemento necessario per conquistare la “riconciliazione”. Magari un punto di vista inglese può servire a rendere l’analisi può serena e quindi giusta. Unica avvertenza: mentre apre i lavori anche lui, divertito, indossa la camicia rossa. Accostata all’accento british fa un certo effetto.

Pubblicato su Il quotidiano della Calabria il 25 ottobre 2010