È il drammaturgo e attore palermitano Davide Enia il terzo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
Se parla del mix di tradizioni presenti in Sicilia ti illustra la ricetta dell’arancina. Se gli chiedi un riferimento per far ripartire il cammino interrotto del Sud lui pensa al Palermo calcio. Non capisci subito dove voglia arrivare, ma alla fine il senso del suo ragionamento ti sembra l’unico possibile.
È piacevolmente spiazzante parlare con Davide Enia, 36enne attore e drammaturgo palermitano. Ti dice della cucina e del calcio – le sue passioni – e ti sta raccontando un mondo intero. Non solo. Quando parla dà fino in fondo l’idea di essere sincero: quando racconta di sé, del suo lavoro, della sua città. Forse è per questa sua irritualità che le sue opere, nate a Palermo e «pensate in palermitano», sono state capaci di parlare a mezzo mondo e tradotte in sette lingue. Enia ha grandi meriti artistici. Tra questi, sicuramente, quello di avere reso contemporaneo il linguaggio del racconto, del cuntu. È stato una delle modalità che ha scelto per praticare il sud (ci abita, ci lavora, ne subisce le influenze, lo racconta) confrontandosi con il mondo. Glielo fai notare, e lui si schermisce: «Parliamoci chiaro: quello era un teatro che si poteva fare con due soldi. E io ogni mese dovevo pagare l’affitto », rileva.
Un percorso originale, che merita di essere raccontato. Lui si presta in una pausa di lavoro. Sta scrivendo un romanzo. «Nessuno vive di teatro in Italia. Il teatro è morto e mi hanno fatto un’offerta interessante: ero disoccupato e l’ho accettata. Questo non sposta di una virgola la dignità di quello che faccio, la passione, l’importanza». Unica concessione sul romanzo insieme al fatto che uscirà nel 2011. Poi si torna a parlare di meridione. Per smontare pezzo dopo pezzo tutti i luoghi comuni. A partire dallo stesso concetto di sud: «È un’espressione geografica schiava della logica cartografica con cui guardiamo le cose», osserva deciso. E proprio partendo «da questo assunto sbagliato che abbiamo legittimato logiche discriminatorie e creato barriere inesistenti». Se poi il riferimento è al sud come «luogo letterario» va anche peggio: «Ha fatto danni incredibili: è frutto della vigliaccheria di chi si rifiuta di confrontarsi con gli altri», è «il sintomo dell’incapacità politica», ha creato le condizioni per «abbandonarsi al fatalismo». O magari ha fatto credere, come si usa dire banalizzando, che «in Sicilia si potrebbe vivere solo di turismo: una bugia incredibile». Basti pensare «all’assenza di infrastrutture» o alle eccellenze artistiche e del territorio «completamente abbandonate». E allora la conclusione non può che essere una: «Smitizzazione questo luogo» partendo dal fatto che «se vuoi capire il sud devi andare a vedere cos’è il nord». Non è un concetto scontato quello del confronto: «Troppo pochi siciliani» lo cercano. È sufficiente pensare «ai produttori di vini: quanti sono quelli che vanno all’estero? – sottolinea – È pavidità mascherata dalla convinzione sbagliata di essere i migliori». Probabilmente è per questa sintesi perversa di ragioni che vale il detto “cu niesce, riniesce”, «interpretazione dialettale del “nemo propheta in patria”».
Ce l’ha fatta invece Davide Enia. Scegliendo Palermo «perché è la mia città, perché avevo i miei affetti – racconta – perché è accogliente». Perché racconta un mondo che sta dentro le cose che Enia scrive e porta in scena. E poi c’è il dialetto («il mio primo linguaggio»), che tiene insieme «ritmi, gesti, silenzi, smorfie, mezze parole», che è «l’urgenza che perde il barocco», che ha «la grande fortuna di fare ridere».
Eppure questa Palermo così «struggente e lancinante», oggi «non è più un posto bello in cui vivere». Pertanto confessa: «Sto ripensando molto al mio stare qui – spiega – non ho vocazioni alla perdita di tempo. Non si cambia il mondo, bisogna fare bene il proprio lavoro». Non è tristezza, è che non ne può più. A fare le cose difficili in fondo c’era già abituato Davide. «C’è uno svantaggio innanzitutto economico per chi fa l’attore a Palermo», sostiene, e poi c’è il deficit di stare lontano da Roma e dai luoghi “politici” del teatro. Tuttavia fino a poco tempo fa, Enia non aveva dubbi: a Palermo stava accadendo qualcosa e lui ne era protagonista. Rivendica infatti con grande orgoglio che, «senza nessun aiuto istituzionale qui sono nate due realtà che si sono imposte in campo internazionale. Non era mai successo». Il riferimento, oltre che a se stesso, è a Emma Dante, straordinaria autrice e regista. «Avevamo talento e abbiamo deciso di puntarci tutto», dice. Un gesto di coraggio senza paracadute («non avevamo una lira») e «l’ostinazione e la presunzione di considerare il tuo lavoro valido ed esportabile». È questo uno dei frutti più autentici di una generazione particolare, quella di chi ha attraversato gli anni 80, «in cui c’era un’ammazzatina al giorno», e quella che ha sentito con le proprie orecchie le bombe degli anni 90. «In una totale assenza di senso – dice – abbiamo costruito un forte contenuto di senso». Non si è trattato di casi isolati: dagli attori cinematografici, ai musicisti palermitani che per tre anni consecutivi hanno vinto Arezzo Wave. «C’è stata una grande esplosione dei talenti, l’ultimo colpo di coda: non so quando ricapiterà». Nel frattempo questa situazione favorevole, e forse irripetibile, di creatività, fermento e passione ha subito una devastante battuta d’arresto. Che secondo Davide Enia ha un nome e un cognome: Diego Cammarata, sindaco da quasi dieci anni della città di Palermo, uomo di Silvio Berlusconi. L’attacco di Enia è pesante e lucido. «Dall’arrivo della giunta Cammarata, otto anni fa, c’è stata l’ostentazione dell’incapacità, dell’ignoranza, del menefreghismo». Chi amministra non ha «nessuna idea di futuro, ignora la realtà, crea un’immagine di un luogo inesistente come salvagente per la propria mediocrità».
Anche il poco di positivo rimasto «è stato letteralmente sbranato a carne cruda, abbassando in maniera preoccupante l’asticella della decenza». Il risultato è che «oggi il palermitano si “accolla” tutto». Non fa sconti, Enia. Affonda i colpi: «La città è una fogna e nessuno ha l’onestà di ammettere come stanno le cose o di assumersi le responsabilità». E invece le responsabilità sono chiare: «Chi ha guidato la città in questi anni? Chi ha sbagliato tutte le scelte sul traffico e i rifiuti?». Cammarata è il responsabile primo, ma l’attore palermitano non dimentica che «questa amministrazione è stata votata da più della metà dei miei concittadini» e che «non mi pare di vedere nessuna indignazione o sacrosanta rabbia rispetto allo stupro continuato della nostra città. Qui c’è rassegnazione tacita». E nessuna indulgenza. Insomma, «stiamo andando a rotoli».
Tuttavia ci sono passioni e stimoli da cui ripartire. Ne è convinto Davide Enia: «Il Palermo gioca il più bel calcio d’Italia, restituisce un’idea di bellezza e tiene vivo un fortissimo orgoglio anche da parte di chi se n’è andato». E poi c’è l’eccellenza della gastronomia «che dovrebbe essere più consapevole. Non riesco a credere che non esiste nulla a tutela di cibo, vini, tradizione, cibo di strada». Non si capacita del fatto che «la politica sia così miope rispetto a tutto questo». La Sicilia «è un piccolo continente, raccoglie tremila anni di tradizioni». Si ferma un attimo. Poi riprende, con una grazia sorprendente: «Un cibo popolare può racchiudere storie e tradizioni di migliaia di anni. L’arancina tiene dentro di sé il riso dell’Asia, lo zafferano dell’Afghanistan, il pomodoro dell’America, il ragù della Francia, la panatura del Maghreb». C’è un mondo dentro l’arancina, che la Sicilia però può perdere. Se non recupera il senso di essere isola, il rapporto con il mare, la consapevolezza di stare al centro del Mediterraneo, l’apertura agli stranieri. Ecco la Sicilia secondo Enia. Allora da dove ripartire? Lui ci pensa un attimo: «Da Ciccio il Sultano, al Duomo di Ragusa Ibla, e da Pino Cuttaia a “La Madia” di Licata», risponde sicuro. Spiega: «Mangiando in questi due ristoranti si può conoscere davvero l’eccellenza e l’enorme potenzialità del nostro territorio, imparando da chi in silenzio compie una grande opera culturale». Per dopo pranzo, «un bicchiere di Vecchio Samperi, di Marco di Bartoli, cioè il marsala come dovrebbe essere». Ovvero i sensi come fondamento dell’identità meridionale.
Pubblicato su Terra il 12 dicembre 2010