Ci sono alcune cose che già pensarle diventa un’impresa. Cose su cui nessuno scommetterebbe un centesimo. Una di queste cose è quella di decidere di fare teatro in Calabria. Nuovo teatro e ricerca, di organizzare un festival. E invece a volte può accadere: che fai nascere una compagnia e che diventi subito riconoscibile, che la tua poetica sia in grado di raccontare un territorio oscuro e inedito come la Calabria, che un dialetto sconosciuto e complicato diventi lingua teatrale, che organizzi una rassegna che diventa ambita e apprezzata. È accaduto in Calabria, a due attori e autori. Si chiamano Dario De Luca e Saverio La Ruina e 18 anni fa hanno fondato Scena verticale (alla compagnia, come organizzatore, qualche anno dopo s’è aggiunto Settimio Pisano). Una storia che va raccontata. Per “Creatività meridiane”, il viaggio del Domenicale di Terra attraverso idee, pratiche e memorie per costruire una nuova identità meridionale, lo fa Dario De Luca. Che parte dall’inizio: Scena verticale «nasce per un’urgenza come tutte le cose che facciamo – spiega Dario – nasce dall’esigenza che avevamo di fare teatro in Calabria. Il nostro percorso creativo e la nostra poetica nascono da un’utopia lavorare nella periferia dell’impero, investire sui nostri luoghi invece che a Roma, nella Romagna felix o a Milano». Dario e Saverio si conosco lavorando a un progetto teatrale che chiude dopo un solo anno. Si conosco e si riconoscono, capiscono che è l’ora di mettersi in gioco nonostante il momento sfavorevole. Racconta: «Tutti ci dicevano che non era il caso», ricorda. In Calabria le strutture erano chiuse o annaspavano, a Roma «era stato appena soppresso il ministero». Non si scoraggiano Dario e Saverio, sentono «l’urgenza» (un termine che ricorre spesso durante la conversazione) di fare, presuntuosamente pensano che «in un territorio vergine come la Calabria si poteva creare una comunità teatrale». E si buttano nella mischia. Per prima cosa si mettono a fare «tanto teatro ragazzi perché è una palestra formidabile visto che a quel tempo c’era molto poco spazio per esibirsi, c’erano pochi teatri, pochi organizzatori, poche stagioni». Ma c’è anche un’altra ragione: «Pensavamo di creare il pubblico del futuro».
Il ragionamento, apparentemente strano, ha un suo fondamento: «Quando usciamo dal cinema, dopo aver visto un film, tutti ci sentiamo giustamente in diritto di commentarlo, di dire la nostra. Ne abbiamo l’abitudine, l’abbiamo acquisita da piccoli». Bene, secondo Dario, bisogna fare lo stesso con il teatro: «Bisognerebbe creare il teatro dell’obbligo, creare la curiosità e l’abitudine, evitare che ci si trovi a dire che il teatro è noioso, che non si capisce, non si conosce. Se vedi uno spettacolo da ragazzo ti sembra più normale andare a teatro da grande».
Va avanti così per alcuni anni. Fino al 1996, quando c’è un nuovo inizio per Scena verticale: Dario e Saverio iniziano «a ragionare su un percorso e un progetto autonomo». È l’anno del primo spettacolo “scritto, diretto e interpretato” da De Luca e La Ruina. Si intitola “La stanza della memoria” contiene dentro di sé i germi della poetica, dei temi, dei linguaggi di Scena verticale. È l’inizio «del nostro percorso artistico vero e proprio: comincia il racconto della Calabria delle mille contraddizioni che viviamo giornalmente, di una terra straordinaria che ti dà e ti toglie». Lo spettacolo, «affettivo e ironico», racconta di un mondo contadino che è andato perduto e che è stato sostituito dal nulla. E poi in questo spettacolo c’è per la prima volta la trasformazione del «nostro dialetto in lingua teatrale». È la svolta. Che si consolida con la presenza dello spettacolo De-Viados a Teatri 90 e che esplode con il progetto ambizioso della trilogia calabro-scespiriana «che racconta di vuoti esistenziali, della incompiutezza di noi calabresi, della tristezza che abbiamo negli occhi, della nostra incapacità di prenderci cura del bene comune». Vanno in scena “Hardore di Otello”, “Amleto ovvero Cara mammina” e “Kitsch Hamlet”, spettacoli apprezzati dal pubblico e dai critici. Dopo aver visto un loro spettacolo al festival di Sant’Arcangelo di Romagna, Goffredo Fofi «attesta l’importanza della nostra compagnia come esperienza di un teatro che viene pensato come pensiero meridiano», ricorda con orgoglio Dario.
Poi la compagnia porta in scena due straordinari spettacoli di Saverio La Ruina: “Dissonorata” e “La Borto”. «Raccontano di una comunità femminile umiliata e offesa, raccontano cose del nostro villaggio che diventano grido di dolore universale delle donne». Per “Dissonorata” La Ruina si aggiudica due premi Ubu (il più importante premio del teatro italiano) nelle categorie “Migliore attore” e “Nuovo testo italiano”. Per “La Borto” oggi è nella terzina finalista insieme a due mostri sacri come Alessandro Gassman e Fabrizio Gifuni.
A Scena verticale va anche dato il merito di aver portato in scena la ‘ndrangheta. È uno spettacolo scritto e diretto da Dario questa volta: si intitola “U Tingiutu. Un Aiace di Calabria”. «Sentivo l’esigenza – spiega – di avviare una riflessione su questo tema, di cominciare a parlare di ‘ndrangheta sul palcoscenico di un teatro. È una ferita ancora aperta – chiarisce – non è facile entrare in questa cosa, scegliere il modo. Il lutto non è stato ancora elaborato, si ripete, si reitera. Non abbiamo la distanza giusta per parlarne con lucidità, forse per questo mi sono fatto aiutare dal mito greco» che infatti attraversa tutto il bellissimo spettacolo.
È un percorso pieno di curve eppure molto coerente quello della compagnia calabrese, il percorso di chi ha deciso di restare in Calabria e tuttavia non s’è mai chiuso nelle proprie certezze: «Ci siamo sempre posti il problema del confronto con le realtà nazionali», dice Dario. Anche per questo forse sono riusciti a vincere la loro scommessa. La prima. Eppure quando chiedi a Dario De Luca quando è il momento in cui hanno pensato di avercela fatta, lui risponde secco: «Ancora non l’abbiamo detto». Poi aggiunge: «Certo oggi ci sentiamo di far parte di più della comunità teatrale italiana, ma è tutto davvero fluttuante». In questo senso forse influisce non avere un proprio teatro. «Avere una casa – spiega – significa avere una riconoscibilità diversa. Ne è un esempio il Teatro Piccolo di Milano che riesce a essere se stesso anche dopo aver perso Paolo Giani e Giorgio Streheler. Avere un teatro significa far sì che rimanga qualcosa».
Forse è anche per questo che Scena verticale non produce solo spettacoli, ma ha deciso nel 1999 di dare vita a un festival. A Castrovillari, provincia di Cosenza, anche questo provincia dell’impero teatrale. «Partecipammo al bando dell’Eti, l’Ente teatrale italiano – ricorda De Luca – proponendo l’ipotesi di un festival del nuovo teatro al sud con l’intento ambizioso di farlo diventare un polo del teatro contemporaneo italiano». È un bando importante. Alla fine vince Scena verticale insieme a due mostri sacri come Gabriele Vacis e Leo De Bernardinis. Un’occasione imperdibile. Primavera dei teatri diventa subito un appuntamento importante. «Siamo diventati una realtà riconosciuta e riconoscibile e dopo 11 edizioni possiamo dire di avere assicurato la continuità: non era per nulla scontato in Calabria», dove gli enti locali sono impegnati a sostenere decine di generiche e spesso inutili sagre paesane. «Ma la cosa di cui siamo molto orgogliosi – sottolinea Dario – è di essere stati una sorta di avamposto: siamo arrivati prima di molti altri con molti spettacoli, molti attori, molte compagnie, abbiamo ospitato cose che solo dopo sono diventate importanti. È successo con Emma Dante, con Ascanio Celestini, persino con alcuni spettacoli di Fabrizio Gifuni».
Un’altra scommessa vinta in questo Sud pieno di contraddizioni. «A volte penso che siamo ancora al Regno delle Due Sicilie, nonostante la tanto sbandierata unità d’Italia, nonostante i 150 che stiamo per festeggiare – polemizza – È una situazione complessa: troppo spesso ci sentiamo sudditi non veri cittadini dell’Italia». Una considerazione amara. Che vale per tutto il Sud anche se di Sud ne esistono molti: «Siamo diversi e abbiamo problematiche differenti», ma c’è una cosa che «ci lega: la sofferenza», non ha dubbi Dario. «È per questo che ci riconosciamo sempre e comunque. È atavica, l’abbiamo nei segni del viso, nel nostro agire ostinato», dice. Anche per la sofferenza ci sono reazioni differenti: «A volte diventa piagnisteo, richiesta d’aiuto servile». E invece no. Invece «esiste anche un Sud che prova a raccontarsi e che con dignità e orgoglio prova a essere protagonista del proprio agire». Un nuovo inizio per il nostro Paese con alcuni punti di riferimento: innanzitutto «le lezioni sulla Costituzione di Calamandrei». Poi i discorsi di Fausto Gullo, storico comunista calabrese della Costituente, «un politico lucido che aveva una grandissima forza e pulizia intellettuale». E propone anche di andarsi a rileggere il libro “Sull’identità meridionale” di Mario Alcaro, filosofo e docente dell’università della Calabria. Letture che devono servire a rimettere in campo «le passioni dei giovani. È per questo – insiste Dario – che non ho mai smesso di fare laboratori nelle scuole». Con che risultati è presto per dirlo. Di certo, sottolinea «se ci stai in una terra devi provare a impegnarti per renderla migliore. Altrimenti – dice – in posti come la Calabria non è neanche il caso di rimanere ed è meglio andare via». E invece «io penso che bisogna che al sud ci riprendiamo in mano nel nostre vite». Ognuno per la sua parte.
Pubblicato sul quotidiano “Terra” 5 dicembre 2010