L’estetica dell’antimafia al Goethe

Un’estetica dell’antimafia? È questa la domanda di partenza attorno a cui discutono Antonio Manfredi, direttore del CAM Casoria Contemporary Art Museum e Danilo Chirico dell’associazione daSud martedì 10 maggio alle ore 20.30, presso Auditorium Goethe Institut, in Via Savoia, 15 a Roma.
La storia del cinema sarebbe impensabile senza Il padrino, Good Fellas o Scarface. La rappresentazione dei gangster in questi film ha generato una tale forza d’effetto da servire addirittura da modello ai veri mafiosi. E quelli che si trovano sul fronte opposto? Come possiamo rappresentare le vittime della mafia? E i martiri e gli eroi nella lotta contro la mafia? Quale ruolo può assumere l’arte in generale nella resistenza contro la mafia?

Un’estetica dell’antimafia

Per troppo tempo il movimento antimafia ha pensato che fosse sufficiente il contenuto: se una storia è forte – era il senso di un ragionamento sottinteso – arriva comunque a destinazione. La cultura main stream dal canto suo ha narrato la storia di gangster e assassini e la rappresentazione della mafia ha fatto un formidabile percorso: basti pensare a film come “Goodfellas” che sono parte della storia del cinema. La conseguenza è che esiste un immaginario – anche perversamente affascinante – sul crimine e che fatica ad affermarsi uno su chi il crimine lo combatte. Che c’è un mercato culturale legato ai carnefici e – quasi mai – alle vittime. Circostanze non proprio irrilevanti. Perché, dopo le serie “il Capo dei capi” o “Romanzo criminale”, può accadere che Riina o il Libano vengano presi a modello e imitati dai ragazzi. Ma a volte a subire il fascino dello schermo non sono solo i più piccoli. Può succedere anche che un boss come Walter Schiavone per la sua villa a Casal di Principe decida di copiare “Scarface”. Questi fatti suscitano polemiche e discussioni accese: sulla rappresentazione della realtà, i diritti e i doveri degli artisti, l’opportunità che certe opere circolino tra i giovani. Questioni (“Può esistere un’estetica dell’antimafia?”) su cui nei giorni scorsi ha invitato a riflettere un istituto di cultura straniero (ma quelli italiani?): il Goethe Institut. Un tema controverso, scivoloso, su cui – senza pretese di verità – vale la pena discutere: intanto si deve dire “no” a ogni censura e si deve avere rispetto – e cura – per il lavoro di artisti e creativi. Che significa non legittimare chi dice che “la Piovra” o “Gomorra” rovinano l’immagine dell’Italia e contrastare l’idea che è meglio non avere le opere se c’è il rischio che siano diseducative. Basti dire che il cinema sarebbe più povero senza “il Padrino”.

La partita (su cui sfidare artisti e produzioni) è invece quella di raccontare nuove storie, e di farlo bene. Di costruire un immaginario antimafie, dei diritti sociali e civili in cui si può riconoscere gran parte del Paese. Questo significa che la battaglia non è sulla sottrazione (meno film sui killer), ma sulla proliferazione di progetti culturali (più pellicole sulle vittime), non si conduce sul marketing e le mode ma sulla qualità (offrendo opportunità agli autori capaci, oltre che sensibili). Non è sufficiente insomma raccontare: è importante come si racconta. Altre due convinzioni vanno sfatate. La prima riguarda il rigore del racconto. “I cento passi” può aiutare a chiarire: è vero, la storia di Peppino Impastato contiene imprecisioni e il film si conclude con una bugia (ai funerali non c’erano le folle) eppure si tratta di un buon film che ha reso Impastato parte di un immaginario largo e condiviso. La seconda convinzione riguarda la violenza: la serie “I Soprano” mostra boss e killer spietati e senza scrupoli, affascinanti e persino simpatici. Eppure con straordinaria efficacia racconta anche di mafiosi con gli attacchi di panico o che vivono nascondendo la propria omosessualità, dipendenza dall’eroina o persino i problemi di erezione. Di questo bisogna parlare. Di modelli di racconto e di storie che meritano di essere conosciute, di autori e giornalisti pigri e poco curiosi, di scrittori famosi che si accontentato della retorica, di un sistema produttivo che non rischia. L’arte e la creatività devono avere invece l’ambizione (e l’opportunità) di raccontare la realtà, di offrire nuovi punti di vista, di metterci in discussione. Un tentativo, a fatica, è in corso: nel cinema (con i lavori su Falcone, Borsellino e Livatino, su don Puglisi e Siani, con “Gomorra” di Garrone e “Placido Rizzotto” di Scimeca fino all’ultimo, e bellissimo, “Tatanka” di Gagliardi), a teatro (con “U tingiutu” di Scena verticale o il lavoro di Emma Dante), nella musica (quarant’anni fa il concept album – censurato – “Terra in bocca” dei Giganti, oggi alcuni episodi come “L’appello” di Silvestri o il tour dei Modena City Ramblers), nei musei (il Cam di Casoria o le “fiumare d’arte” siciliane di Antonio Presti), nella satira (dal siciliano Giampiero Caldarella al lombardo Giulio Cavalli). Molte cose importanti restano fuori da questo parziale e arbitrario elenco. Ma questi nomi bastano a dimostrare che quando l’arte ha raccontato è aumentata la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini, è nato un immaginario. Non è abbastanza, ma esiste.

Un capitolo a parte merita la Calabria, patria della più potente delle mafie e luogo quasi del tutto privo di rappresentazione e autorappresentazione. Allora forse non è un caso che i libri recenti più riusciti nel racconto di quella terra siano di un napoletano (Francesco Cascini con il suo “Storia di un giudice”) e di una reggina trapiantata al nord (Rosella Postorino con il suo bellissimo “L’estate che perdemmo Dio”) o che non esista una cinematografia sulla Calabria (ha fallito persino Comencini). Qualcosa però si muove, di importante: Peppe Voltarelli, Massimo Barilla, Ernesto Orrico, Luca Scornaienchi, Nino Racco, Kalafro, Popucià sono solo alcuni dei tanti interpreti dell’Onda calabra anti-‘ndrangheta. Qui si inserisce l’attività dell’associazione daSud che questo mondo cerca di tenerlo in rete. E che con la cultura e i nuovi linguaggi creativi ricostruisce la memoria negata e ragiona attorno a una nuova identità meridionale. Con il libro “Dimenticati” abbiamo raccontato più di 250 storie di innocenti uccisi, sono nati documentari e un archivio multimediale, murales e lavori fotografici, trasmissioni radiofoniche e campagne mediatiche come “Le mafie ci uniscono” sull’unità d’Italia. Abbiamo investito sul teatro e la musica, offrendo storie e palcoscenici a un movimento forte (e non abbastanza conosciuto) che ha riscoperto il suo territorio, le sue storie, il suo dialetto. A tutto il Sud è dedicato il nostro lavoro sui fumetti: un nuovo linguaggio contro i clan. La strada è ancora lunga, ma è tracciata. Può esistere un’estetica dell’antimafia?, chiede il Goethe. Deve.

(il manifesto 12 maggio 2011)