Roma caput mafie come sostengono i magistrati della Dda o Roma che resiste al tentativo di infiltrazione dei clan come sostengono il prefetto, il questore e larga parte del mondo politico? Una domanda che ha un andamento carsico e che in queste ore torna di attualità per l’omicidio, pesante, di Flavio Simmi a Prati e per il sequestro alla ‘ndrangheta dello storico Caffè Chigi. Una domanda alla quale bisogna provare a dare una risposta “uscendo dagli schemi retorici”, mettendo insieme i pezzi, “costruendo uno sguardo d’insieme”. Parola di Maurizio Fiasco, sociologo ed esperto di mafie nella Capitale che il suo primo rapporto sulla criminalità romana l’ha scritto nel lontanissimo 1983. “Ci sono molti mafiologi che non studiano – dice subito – e personaggi che non vogliono che si studi”. E invece i fatti sono l’orizzonte da cui partire per tentare di decifrare le mafie romane.
“Ci sono una notizia buona e una cattiva”, dice. Quella buona è che il livello di comprensione e di investigazione oggi è molto elevato”. Che significa che sia i magistrati della procura “sia le tre forze di polizia hanno capacità, competenze e consapevolezza per affrontare il fenomeno”. La notizia cattiva rigurda invece la parte amministrativa e ispettiva: “Sta qui il vero buco, la vera falla di un sistema che mostra di essere arretrato, evanescente”. Perché, Fiasco ne è convinto, “il vero contrasto alla criminalità organizzata deve tenere insieme la risposta giudiziaria e la risposta gestionale a proposito della cosa pubblica e della programmazione degli investimenti”: se un sistema burocratico e amministrativo è impermeabile “il mafioso capisce che non deve neanche tentare di infiltrarsi”. E invece è “del tutto insufficiente l’apparato ispettivo nelle Asl, nel mercato del lavoro, nel contrasto all’abusivismo e agli illeciti ambientali. E un territorio estremamente vulnerabile come quello romano – sottolinea il sociologo – diventa estremamente attrattivo per la criminalità”. C’è poi un altro elemento che non si può sottovalutare nelle cause che aprono le porte ai clan nella Capitale: la disponibilità straordinaria di denaro liquido. “La crisi delle piccole e medie imprese ha ricreato – afferma Fiasco – un ampio mercato dell’usura e della rilevazione a prezzi da rottamazione di realtà imprenditoriali che un tempo erano redditizie e oggi sono in difficoltà”. Ma c’è una “specificità romana” che rende tutto più complesso, più vischioso, più pericoloso: “Esistono bank officer in nero, occulti” che permettono quattro tipi di operazione: “la scomparsa e poi la reimmissione nel sistema finanziario ed economico del denaro proveniente dall’evasione fiscale, quello frutto della corruzione (da parte di chi paga o di chi riceve tangenti) e che consente di riciclare il denaro sporco”. Si tratta di professionisti “senza peli sullo stomaco che sono capaci di dematerializzare la ricchezza perché, bisogna essere chiari, a certi livelli i soldi non si mettono sotto il mattone”, si tratta di professionalità “che in passato venivano offerte persino alla mafia russa”. Un quadro inquietante, su cui si fonda il sistema criminale della Capitale (che gestisce i grossi flussi di quattrini che arrivano dal Sud e dall’Europa). Concretamente. “Le ipotesi investigative su diverse inchieste romane hanno rivelato che esistevano uno specialista degli investimenti o persino una intera struttura di servizio capaci di nascondere il reddito o di impiegarlo in nero per sfuggire ai controlli”. Un quadro generale di vulnerabilità al crimine che va oltre gli stessi clan. Come non pensare, ad esempio, a servizi analoghi a quelli di consulenza che si ipotizzano per Pambianchi e socio, o per Lande, il cosiddetto “Madoff dei Parioli”?
Dall’altro lato, gli omicidi sono solo il segno di un sistema che sta cambiando, che si sta trasformando, ma è altrove che bisogna guardare. Siamo di fronte al ritorno della Banda della Magliana? Anche qui bisogna evitare inutili esercizi retorici anche se – certo – i nomi, le zone geografiche, i contatti, il gergo, molte altre cose sembrano legare la nuova criminalità romana con quella che ha caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta. “Le rapine e la verticalizzazione dei mercati criminali hanno andamenti ciclici – spiega Fiasco – prima si forma una generazione di rapinatori che poi acquisisce nuove competenze sul territorio. A quel punto è matura per passare ad altri affari. Si tratta del ciclo evolutivo della criminalità: che prevede la formazione di un soggetto autoctono. Esso ha un riferimento antropologico che noi siamo tentati di sottovalure, mentre invece in certi mondi ha grande importanza. Il richiamo allora è mitico, ma non c’è un’affiliazione diretta nonostante una certa coincidenza di territori e di quartieri”. Di sicuro, però, per non correre il rischio di finire di nuovo nelle mani di una Banda della Magliana, è necessario, secondo Fiasco, “bloccare le opportunità che hanno permesso a quella banda di ingrandirsi”. Un esempio? Le sale da gioco: “Quando nel 1991 abbiamo lavorato alla relazione della commissione parlamentare antimafia con il presidente Gerardo Chiaromonte – spiega – il gioco d’azzardo era tutto illegale. Oggi la disseminazione sul territorio delle sale da gioco offre occasioni sia per sviluppare il racket sul territorio sia per coprire il gioco in nero con quello legale”. Ovviamente non si tratta solo di questo. Una mappa possibile delle attività dei clan guarda a tutta la città: “l’usura legata all’abusivismo e i capitali sporchi nella creazione di case di riposo in periferia, l’occupazione degli esercizi commerciali prestigiosi al centro, le bande giovanili che riproducono un certo sistema gangeristico urbano in molti quartieri della città e le attività minori affidate alla malavita straniera”. Questo il quadro della mala romana. Con un ruolo specifico di certa borghesia e di certi professionisti. Con la miopia sconcertante della politica.
(Paesesera.it)