È l’attore e autore teatrale lucano Ulderico Pesce il quarto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento – collettivo e individuale – sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.
Ha lavorato con Giorgio Albertazzi e Carmelo Bene, Luca Ronconi e Gabriele Lavia. Ne va fiero. Poi ha scelto la sua strada, quella che gli aveva indicato suo nonno che di che di mestiere faceva l’arrotino e che raccontava con un talento naturale le cose del passato. Storie vere, difficili, che lo riempivano. Quando è partito per Roma per studiare, alle pareti della sua stanza nel quartiere San Lorenzo ha appeso la foto di suo nonno. Come monito, forse. Come modello, ispirazione. È per questo che ha scelto di stare sul palcoscenico per raccontare la realtà. Di lavoratori sfruttati, di operai senza diritti, di cittadini che si ammalano. La realtà del nostro Paese, del nostro Mezzogiorno.
Ulderico Pesce è nato e vive in Basilicata. È un uomo di teatro – autore, attore e regista – che, per dirla con il grande critico del Corsera Franco Cordelli, recita come se stesse «seduto a un tavolo con ciascun spettatore». Uno che quando gli parli ti guarda negli occhi, racconta, si infervora, spiega e maledice. E non ha peli sulla lingua, nella vita come negli spettacoli. Così quando gli chiedi di partecipare al ragionamento del Domenicale di Terra sulle nuove creatività e identità meridionali, lui accetta volentieri. E dice subito: «Parlo anche da semplice cittadino». E dice subito: «Il Sud oggi è esattamente come quello di fine Ottocento: nulla è cambiato nel rapporto tra territorio, cittadini e Stato». Il paragone suona forte, ma l’attore lucano aggiunge subito: «Eravamo colonizzati dai Savoia nel 1861 e lo siamo oggi. Allora – sottolinea – lo Stato approfittò delle risorse energetiche, agricole e naturalistiche del nostro Sud lasciando la popolazione e interi pezzi di territorio sprovvisti di Stato, di quell’elemento terzo capace di assicurare giustizia e dignità, equità e diritti ai cittadini. Oggi non è diverso: lo Stato non c’è». Non si ferma qui il ragionamento di Ulderico Pesce. «Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle – racconta – sono felice di avere una madre che è stata una bracciante agricola, ma mia madre avrebbe voluto studiare e non ha potuto. Questa è l’impronta di un’ingiustizia che hanno vissuto in tanti nel nostro territorio – insiste – e che la politica, che ha reso legale l’illegalità, non fa nulla per cambiare. Vale per la destra e per la sinistra in egual misura». Torna all’idea dello sfruttamento del Nord nei confronti del Sud, dell’abbandono dello Stato. E fa due esempi («mi piace parlare di cose concrete», dice). Il primo riguarda il Ponte sullo Stretto: «Noi meridionali non ne sentiamo il bisogno, non lo vogliamo, la nostra stessa cultura è contraria – sostiene – eppure il nostro ambiente e territorio vengono sacrificati per regalare un grosso affare a una grande impresa del Nord». E poi la Basilicata: «Bossi parla sempre di federalismo – dice – e allora parliamone con i fatti. Il nostro territorio ospita tre grandi multinazionali: l’Eni in Val d’Agri, dove estrae il 60% del fabbisogno nazionale di petrolio, la Coca Cola nel Volture, dove usa la nostra acqua, e la Fiat a Melfi». Bene, secondo Pesce, sono «tre grandi realtà che colonizzano il territorio e lo deturpano lasciando la fame alla Basilicata». Tanto che ogni anno a causa dell’emigrazione è come se sparisse «un paese di 15mila abitanti». E i lavoratori continuano a restare «senza diritti»: «Alla Fiat – attacca – ancora oggi non c’è il medico dopo le 18, come avviene in tutte le fabbriche d’Europa» e infatti «lo scorso aprile un operaio è morto per un semplice principio di infarto». Un prezzo che la Basilicata paga, senza avere nulla in cambio: «Queste tre grandi aziende le tasse le pagano altrove: parliamo di questo quando parliamo di federalismo fiscale».
La risposta a tutto questo sta nel brigantaggio, dice Ulderico Pesce. «Sono fiero di essere nato in Basilicata, il posto in cui il fenomeno è stato più forte», rivendica. «La risposta sta in una nuova forma di brigantaggio – sottolinea – quello dei movimenti che qui al Sud sono vivi e difendono il territorio e chiedono diritti. Movimenti che devono essere autonomi dalla politica – insiste – ma che devono organizzarsi e darsi una forma per cambiarla, contaminarla», per entrarci insomma con le proprie parole d’ordine. «I movimenti sui territori devono diventare forza politica – rimarca l’attore lucano – senza leaderismi, ma senza perdere altro tempo prezioso: in questo Paese la gente perbene sta all’opposizione e deve potersi esprimere». I riferimenti vanno trovati nella letteratura e nella poesia. Rocco Scotellaro, innanzitutto. «Un poeta contadino – lo ricorda Ulderico Pesce che sul suo lavoro e della poetessa Amelia Rosselli ha anche costruito uno splendido spettacolo “Contadini del Sud” – un sindaco, un occupatore delle terre. Diciamo che è stato un politico con un’impostazione poetica e un poeta con una coscienza politica: un vero punto di riferimento». E poi Corrado Alvaro, «il Pirandello delle novelle dei primi del secolo di Ciaula scopre la luna», il poeta suicida Franco Costabile «che amo molto e che ho sentito citare ai ragazzi del movimento ambientalista di Amantea». Prova a tenere insieme tutto questo mondo Ulderico Pesce con il suo lavoro, nella scrittura e nella scena. Lo spiega in maniera appassionata: «Ho scelto di fare questo teatro per due ragioni: una artistica e una psicologica». La prima «riguarda i miei studi». Un giorno al teatro Ateneo della Sapienza a Roma Ulderico Pesce incontra Anatoli Vassilev che lo porta a Mosca. Si ferma lì più di tre anni a studiare e praticare «un teatro semplice, povero, strutturato sulla verità e sulla necessità delle emozioni», a lavorare sul Metodo Stanislavskij «secondo il quale un attore deve essere sempre vero, credibile. Tutto il contrario della tradizione artificiosa del teatro italiano». Così tra il teatro italiano «e mio nonno che faceva l’arrotino, ho scelto mio nonno e i suoi racconti. Prima li ho portati in giro in Basilicata – racconta – poi ho capito che interessavano anche a Roma o a Milano». Così ha trovato il suo linguaggio Ulderico Pesce. Poi la ragione psicologica: l’ingiustizia di vivere al sud, «rabbia e la voglia di riscatto che mi sentivo dentro». E poco importa se stare al Sud e fare il suo lavoro è più difficile: «Ho fatto le cose per istinto e non per calcolo – dice – So bene che è molto più complicato, che ci sono poche strutture in mano sempre alle stesse persone». Eppure, rimarca, «sono felice di essere radicato al sud, di fare qui i miei laboratori e avere qui il mio archivio». Insomma, «al sud c’è più humus per il mio lavoro, più anima, più materia emotiva per la scrittura – confessa Pesce – e poi qui il mio lavoro ha più senso». Si spiega così: «Al nord non si può salire sugli alberi perché ti prendono per matto. Io qui appena posso ci salgo, e mi sento parte di questo mondo». Eccola l’anima del Sud, «la forma mentale di essere Sud», secondo Ulderico Pesce. E allora «io voglio rendere un po’ più Sud anche il Centro e il Nord».
Articolo pubblicato su Terra, 9 gennaio 2011
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È il novembre del 1878 quando Giovanni Passannante, giovane cuoco della Basilicata, vende la propria giacca per otto soldi per comprare un coltello. Vuole uccidere il Re d’Italia, Umberto I. Non ci riesce, gli procura solo qualche graffio. Viene però condannato a morte, poi graziato e spedito in una cella del carcere dell’isola d’Elba che sta sotto il livello del mare: qui si ammala e inizia persino a mangiare i suoi escrementi. Viene poi mandato a finire i suoi giorni in un manicomio criminale. Muore nel 1910. Gli viene negata la sepoltura e il suo cranio viene esposto nel Museo Criminologico di Roma.
Da allora Passannante finisce nel dimenticatoio, fino a quando Ulderico Pesce non si mette in testa di avviare battersi per dargli una degna sepoltura. Vince: nel 2007 i resti di Giovanni Passannante vengono portati e sepolti a Salvia di Lucania, il suo paese d’origine. Un paese che nel frattempo ha cambiato nome e ancora oggi si chiama “Savoia di Lucania”.
Questa incredibile storia Ulderico Pesce l’ha raccontata in un fortunatissimo spettacolo (che ha girato importanti festival in tutto il mondo) dal titolo “L’innaffiatore del cervello di Passannante: l’anarchivo che cercò di uccidere Umberto I di Savoia”. E oggi è diventata un film, “Passannante”, per la regia di Sergio Colabona, nel quale insieme a Ulderico Pesce recitano il cantante dei Tetes de Bois Andrea Satta, Bebo Storti, Roberto Citran e molti altri artisti. Il film è stato selezionato per il Bari International Film e Tv Festival diretto da Ettore Scola e Felice Laudadio (22 – 29 gennaio) che sarà presentato domani (10 gennaio) alla Casa del cinema di Roma.