Per troppo tempo il movimento antimafia ha pensato che fosse sufficiente il contenuto: se una storia è forte – era il senso di un ragionamento sottinteso – arriva comunque a destinazione. La cultura main stream dal canto suo ha narrato la storia di gangster e assassini e la rappresentazione della mafia ha fatto un formidabile percorso: basti pensare a film come “Goodfellas” che sono parte della storia del cinema. La conseguenza è che esiste un immaginario – anche perversamente affascinante – sul crimine e che fatica ad affermarsi uno su chi il crimine lo combatte. Che c’è un mercato culturale legato ai carnefici e – quasi mai – alle vittime. Circostanze non proprio irrilevanti. Perché, dopo le serie “il Capo dei capi” o “Romanzo criminale”, può accadere che Riina o il Libano vengano presi a modello e imitati dai ragazzi. Ma a volte a subire il fascino dello schermo non sono solo i più piccoli. Può succedere anche che un boss come Walter Schiavone per la sua villa a Casal di Principe decida di copiare “Scarface”. Questi fatti suscitano polemiche e discussioni accese: sulla rappresentazione della realtà, i diritti e i doveri degli artisti, l’opportunità che certe opere circolino tra i giovani. Questioni (“Può esistere un’estetica dell’antimafia?”) su cui nei giorni scorsi ha invitato a riflettere un istituto di cultura straniero (ma quelli italiani?): il Goethe Institut. Un tema controverso, scivoloso, su cui – senza pretese di verità – vale la pena discutere: intanto si deve dire “no” a ogni censura e si deve avere rispetto – e cura – per il lavoro di artisti e creativi. Che significa non legittimare chi dice che “la Piovra” o “Gomorra” rovinano l’immagine dell’Italia e contrastare l’idea che è meglio non avere le opere se c’è il rischio che siano diseducative. Basti dire che il cinema sarebbe più povero senza “il Padrino”.
La partita (su cui sfidare artisti e produzioni) è invece quella di raccontare nuove storie, e di farlo bene. Di costruire un immaginario antimafie, dei diritti sociali e civili in cui si può riconoscere gran parte del Paese. Questo significa che la battaglia non è sulla sottrazione (meno film sui killer), ma sulla proliferazione di progetti culturali (più pellicole sulle vittime), non si conduce sul marketing e le mode ma sulla qualità (offrendo opportunità agli autori capaci, oltre che sensibili). Non è sufficiente insomma raccontare: è importante come si racconta. Altre due convinzioni vanno sfatate. La prima riguarda il rigore del racconto. “I cento passi” può aiutare a chiarire: è vero, la storia di Peppino Impastato contiene imprecisioni e il film si conclude con una bugia (ai funerali non c’erano le folle) eppure si tratta di un buon film che ha reso Impastato parte di un immaginario largo e condiviso. La seconda convinzione riguarda la violenza: la serie “I Soprano” mostra boss e killer spietati e senza scrupoli, affascinanti e persino simpatici. Eppure con straordinaria efficacia racconta anche di mafiosi con gli attacchi di panico o che vivono nascondendo la propria omosessualità, dipendenza dall’eroina o persino i problemi di erezione. Di questo bisogna parlare. Di modelli di racconto e di storie che meritano di essere conosciute, di autori e giornalisti pigri e poco curiosi, di scrittori famosi che si accontentato della retorica, di un sistema produttivo che non rischia. L’arte e la creatività devono avere invece l’ambizione (e l’opportunità) di raccontare la realtà, di offrire nuovi punti di vista, di metterci in discussione. Un tentativo, a fatica, è in corso: nel cinema (con i lavori su Falcone, Borsellino e Livatino, su don Puglisi e Siani, con “Gomorra” di Garrone e “Placido Rizzotto” di Scimeca fino all’ultimo, e bellissimo, “Tatanka” di Gagliardi), a teatro (con “U tingiutu” di Scena verticale o il lavoro di Emma Dante), nella musica (quarant’anni fa il concept album – censurato – “Terra in bocca” dei Giganti, oggi alcuni episodi come “L’appello” di Silvestri o il tour dei Modena City Ramblers), nei musei (il Cam di Casoria o le “fiumare d’arte” siciliane di Antonio Presti), nella satira (dal siciliano Giampiero Caldarella al lombardo Giulio Cavalli). Molte cose importanti restano fuori da questo parziale e arbitrario elenco. Ma questi nomi bastano a dimostrare che quando l’arte ha raccontato è aumentata la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini, è nato un immaginario. Non è abbastanza, ma esiste.
Un capitolo a parte merita la Calabria, patria della più potente delle mafie e luogo quasi del tutto privo di rappresentazione e autorappresentazione. Allora forse non è un caso che i libri recenti più riusciti nel racconto di quella terra siano di un napoletano (Francesco Cascini con il suo “Storia di un giudice”) e di una reggina trapiantata al nord (Rosella Postorino con il suo bellissimo “L’estate che perdemmo Dio”) o che non esista una cinematografia sulla Calabria (ha fallito persino Comencini). Qualcosa però si muove, di importante: Peppe Voltarelli, Massimo Barilla, Ernesto Orrico, Luca Scornaienchi, Nino Racco, Kalafro, Popucià sono solo alcuni dei tanti interpreti dell’Onda calabra anti-‘ndrangheta. Qui si inserisce l’attività dell’associazione daSud che questo mondo cerca di tenerlo in rete. E che con la cultura e i nuovi linguaggi creativi ricostruisce la memoria negata e ragiona attorno a una nuova identità meridionale. Con il libro “Dimenticati” abbiamo raccontato più di 250 storie di innocenti uccisi, sono nati documentari e un archivio multimediale, murales e lavori fotografici, trasmissioni radiofoniche e campagne mediatiche come “Le mafie ci uniscono” sull’unità d’Italia. Abbiamo investito sul teatro e la musica, offrendo storie e palcoscenici a un movimento forte (e non abbastanza conosciuto) che ha riscoperto il suo territorio, le sue storie, il suo dialetto. A tutto il Sud è dedicato il nostro lavoro sui fumetti: un nuovo linguaggio contro i clan. La strada è ancora lunga, ma è tracciata. Può esistere un’estetica dell’antimafia?, chiede il Goethe. Deve.
(il manifesto 12 maggio 2011)